L'invio dei missionari, "Dalla parte dei poveri"

Venerdì 23 ottobre cinque tra religiosi e religiose, una famiglia, un volontario dell’Operazione Mato Grosso diretto in Perù, una laica della Comunità Papa Giovanni XXII inviata in Asia, otto tra medici, tecnici e amministrativi di Medici con l’Africa Cuamm hanno ricevuto la croce di missionari dalle mani del vescovo Claudio. Una croce simbolo anche per tutta la comunità diocesana a mantenere le porte aperte, a diventare "chiesa in uscita".

L'invio dei missionari, "Dalla parte dei poveri"

«La missione oggi è un “abitare la vita”. Non importa da dove veniamo e dove andiamo, perché la missione, come la vita, è un continuo fluire». Suor Lorena Ortiz, comboniana, è nata in Costarica. Ha trovato la sua prima terra di missione in Sudan, se ne è «andata piangendo» per venire a Padova e qui, per otto anni, è stata missionaria. Ora riparte, diretta ancora una volta in Sud Sudan, e lo fa di nuovo «con le lacrime agli occhi» ma anche con la gioia di chi sperimenta sulla propria pelle quel fluire ininterrotto che si fa realmente “chiesa universale”, in cui i cammini si incrociano e si mescolano, in cui donne e uomini partono da terre considerate per secoli meta di missione e vengono a dire la bellezza del vangelo a noi che per secoli abbiamo presunto di averne quasi l’esclusiva.

La sua testimonianza dà il senso e indica la direzione alla veglia missionaria dell’invio, la prima presieduta dal vescovo Claudio. Assieme a lei, venerdì 23 ottobre, ricevono il crocifisso e il mandato missionario altri cinque religiosi e religiose, una famiglia del cammino neocatecumenale in partenza per la Svizzera, un volontario dell’Operazione Mato Grosso diretto in Perù, una laica della Comunità Papa Giovanni XXII inviata in Asia, otto tra medici, tecnici e amministrativi di Medici con l’Africa Cuamm in partenza per Tanzania, Mozambino, Angola, Etiopia, Sud Sudan. Ma ci sono anche quattro presbiteri che arrivano a Padova dall’Ucraina, dall’India, dallo Sri-Lanka e dalla Romania per seguire le comunità cattoliche etniche.

Insieme, dipingono il volto plurale di una chiesa che non rinuncia ad “abitare la vita” e lo fa declinando concretamente il tema della giornata missionaria mondiale, “Dalla parte dei poveri”. Cosa significhi camminare col passo di chi ha meno, di chi è ferito nelle sue istanze di giustizia, lo ricorda la testimonianza di padre Ezechiele “Lele” Ramin, il giovane missionario comboniano trucidato in Brasile trent’anni fa. E lo spiega il vescovo Claudio ripercorrendo il vangelo del ricco epulone e di Lazzaro, innalzato nella vita eterna accanto ad Abramo dopo aver mendicato le briciole alla porta del ricco. Ecco, è quella porta che ci sta anche oggi di fronte e ci domanda un di più di coraggio: perché, è fuor di dubbio, il posto migliore è toccato a noi.

«Se stiamo sulla soglia e guardiamo fuori dalla porta – ricorda il vescovo Claudio – vediamo pezzenti che si accalcano, gente che reclama cibo. Serve poco a voltare le spalle, chiudere gli occhi, c’è perfino chi spiega che “il vangelo va interpretato meglio”, che le cose brutte non ci riguardano, che i poveri sono responsabili della loro miseria. Eppure basterebbe poco, appena un metro, per trovarci noi fuori dalla porta del benessere. E come guarderemmo allora a chi sta dentro?».

Quella croce consegnata ad alcuni, diventa così un mandato per l’intera comunità ad “aprire quella porta”, a essere davvero “chiesa in uscita” secondo l’espressione di papa Francesco che è ormai entrata a far parte dell’immaginario comune ma che chiede ogni giorno lo sforzo e il coraggio di allargare lo sguardo oltre le porte che proteggono le nostre apparenti sicurezze, nella consapevolezza che servizio e missione rappresentano le due dimensioni fondamentali di ciascun cristiano.

Tutti chiamati a pensare la propria vita nell’ottica del dono, si tratti dell’accoglienza di un figlio in famiglia come della dedizione ai poveri, dell’impegno missionario come della vocazione alla vita consacrata. E tutti impegnati ad abitare davvero la vita in un continuo fluire, perché «si parte – sottolinea ancora il vescovo – col compito di tornare a dirci cosa c’è là fuori, e come noi dobbiamo cambiare. Usciamo per realizzarci, usciamo perché crediamo che le parti si devono rovesciare. Usciamo, non perché sia comodo o facile condividere il nostro benessere, ma perché è questo che ci chiede Gesù».

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