Ecco la nostra nuova quotidianità: il racconto di don Ettore Cannavera

Coranavirus, come è cambiata la vita nelle comunità che ospitano ragazzi in esecuzione penale esterna, rifugiati e persone provenienti dalle Rems

Ecco la nostra nuova quotidianità: il racconto di don Ettore Cannavera

L’edificio a due piani, in pietra a vista, è un bell’incontro tra antico e moderno. Tutt’intorno dieci ettari di terreno con filari di viti, uliveti e campagna a perdita d’occhio. La comunità La Collina, fondata 25 anni fa a Serdiana, da don Ettore Cannavera, ospita ragazzi in esecuzione penale esterna, adulti e internati complessi provenienti dalle Rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che accolgono i detenuti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari). E oggi, come tutte le altre strutture di accoglienza, fa i conti con l’emergenza coronavirus.

Don Ettore, cosa è cambiato per voi e per i ragazzi della comunità in queste settimane?
“La vita comune, con i suoi ritmi, il lavoro e i momenti di svago è nel complesso la stessa. Ma manca il contatto con l’esterno perché qui abbiamo sigillato tutto. In questo momento abbiamo nove persone nella comunità principale: il gruppo maggiore è formato da ragazzi tra i 18 e i 25 anni, ma ci sono anche due adulti con problemi psichiatrici, provenienti da una Rems, tra cui un sessantenne con alle spalle l’omicidio della madre. Queste ultime due persone sono seguite da uno psichiatra che una volta a settimana li raggiunge per verificare la terapia che stanno seguendo, mentre anche gli altri, essendo tutti ai domiciliari, hanno i loro operatori autorizzati a venire da Cagliari. Come avviene per le carceri”.

Come siete organizzati per le misure di sicurezza sanitaria?
“Riusciamo a mantenere la distanza sia all’interno che all’esterno: abbiamo tanto spazio e la fortuna di essere in campagna. Le ore di lavoro si svolgono nell’azienda agricola: mentre uno lavora nel vigneto l’altro è nell’uliveto e un altro ancora nell’orto. Gli ambiti sono tre e con molto spazio a disposizione. Abbiamo appena finito la potatura degli ulivi, che sono oltre 1.200. Adesso è tempo di semina. Chi deve fare attenzione è l’operatore di turno che segue i ragazzi e deve tenerli distanziati”.

All’interno invece?
“Per mangiare abbiamo allungato il tavolo e ci sono almeno 3 metri tra una persona e l’altra. Ogni ospite ha la sua stanza, non potendo ricevere più nessuno dall’esterno si sono liberate camere e le stiamo utilizzando tutte. E questa è la cosa più pesante: in comunità non entra più nessuno tranne i cinque operatori che seguono a turno i ragazzi, mattina, pomeriggio e notte. Quello che manca è il contatto fisico con le famiglie e di questo i ragazzi soffrono molto. Alcuni di loro nel fine settimana potevano tornare a casa, ora devono restare distanti. Manca poi il contributo degli altri operatori e dei volontari che hanno dovuto interrompere visite e corsi: dagli incontri culturali alla riflessione del giovedì, alle attività per la stesura della rivista ‘La Collina: fa che nessuno si perda’. Come anche si sente la mancanza dell’esterno: un ragazzo aveva iniziato un corso di vela al porto, un altro collaborava con un cantiere. E’ tutto bloccato. Dalla comunità non si esce e non si entra se non per esigenze strettamente necessarie. Ma questo tipo di isolamento è una condizione comune, purtroppo, al resto del mondo”.

Bloccati anche gli ingressi dal carcere?
“Sì. L’ingresso nella nostra comunità è graduale perché deve essere una scelta di vita ben precisa: chi viene qui deve conoscere e accettare le regole interne. Ma questo periodo di ingressi e uscite graduali ora non è pensabile e, anche per questo, non possiamo ospitare persone che pure avrebbero le condizioni per uscire dal carcere, oltre al rischio che comporta l’accesso di una persona che arriva dall’esterno. In questo momento ci sono almeno otto richieste bloccate”.

Alla comunità principale sono collegate sedi distaccate che seguono anche rifugiati e giovani fino a 25 anni e adulti che prima dell’emergenza uscivano dal carcere per lavorare in tribunale alla digitalizzazione dei fascicoli. “Sono 12 – spiega don Ettore – i detenuti impegnati con i lavori di pubblica utilità: fino a qualche settimana fa uscivano dall’istituto alle 7 del mattino per rientrare alle 15.00 e negli uffici giudiziari trovavano ad attenderli due nostri operatori che li seguivano nel corso di tutta la giornata lavorativa. Questo tipo di collaborazione era iniziata col tribunale tre anni fa e da un anno e mezzo era stata richiesta anche dalla Procura. Un’apertura importante che stava dando buoni risultati. Due delle persone impegnate hanno condanne pesanti, uno è un ergastolano con 20 anni di carcere alle spalle. Il problema ora è che l’attività è bloccata a causa dell’emergenza: in questo momento chi era in carcere resta dentro e chi era in misura alternativa da noi sta qui ma non esce”.

I rifugiati invece sono 35, con sei operatori che li seguono. “Ma l’emergenza tiene a casa anche gli operatori e tutte le attività sono state sospese. Il massimo che possiamo fare, grazie a una specifica autorizzazione, è andarli a trovare a domicilio per un’ora o due, portare loro la spesa e sostenerli. Non possono più partecipare ai corsi di italiano, né lavorare, ad esempio alcune ragazze facevano le pulizie negli hotel. Ora è tutto fermo. Per le persone impegnate in tribunale e rimaste senza stipendio, abbiamo preparato la richiesta del bonus da 600 euro che consentirà loro di continuare a sostenersi in questo periodo di difficoltà”.

Come sarà questa Pasqua?
“Sarà lontana dalle famiglie, come per molte altre persone. Ma con una grande tavolata e un bel pranzo da consumare insieme. Intanto per il Venerdì Santo ho proposto come sempre ai ragazzi il digiuno. Non in riferimento a Gesù, ma per ricordare le sofferenze dei crocifissi di oggi: le tante persone che ancora soffrono la fame. E’ un gesto, tra noi, per capire cosa vuol dire rimanere senza cibo e che c’è tanta gente nel mondo che il Venerdì Santo lo vive tutto l’anno”.

Carla Chiaramoni

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)