Malta. Un “Laboratorio della Pace” nel cuore del Mediterraneo, dove il migrante non è un numero ma una persona

“Siamo qui per dare testimonianza, per rendere credibili le parole del Vangelo laddove Gesù dice: ‘Ero straniero e mi avete accolto’. I problemi non si risolvono con i seminari e i discorsi. Le ingiustizie e le povertà si affrontano solo andando a vivere con chi le subisce”. A colloquio con padre Dionysius Mintoff, frate francescano, fondatore del “Laboratorio della Pace Giovanni XXIII” che accoglie e aiuta i migranti che approdano sull’isola. Mali, Eritrea, Etiopia, Senegal, Sudan, Somalia. L’elenco è la geografia di Paesi messi duramente alla prova da guerre, instabilità politiche, cambiamenti climatici, povertà spesso estreme. Il loro sogno – dice un ragazzo del Sudan – è molto semplice: “vivere una buona vita”

Malta. Un “Laboratorio della Pace” nel cuore del Mediterraneo, dove il migrante non è un numero ma una persona

(da Malta) È un via vai continuo di ragazzi che bussano alla porta o chiamano al telefono. Nonostante i suoi 93 anni e un corpo piegato dalla lunga vita, padre Dionysius Mintoff, frate francescano, risponde, fa domande e dà indicazioni chiare su dove andare e cosa fare. Il problema principale per tutti è ottenere un documento di richiedente asilo. Senza quello, ripete con voce forte e decisa, o si torna indietro o si viene lasciati per strada. Siamo nel Centro di accoglienza per migranti “Giovanni XXIII Peace Lab”. Un laboratorio di pace. Forse più semplicemente, un posto dove trovare rifugio e aiuto e da dove ripartire per costruire un futuro. È venuto qui anche Papa Francesco durante la sua visita a Malta nell’aprile del 2022. Siamo ad Hal Far, la zona dove si trova l’aeroporto. Poco lontano da qui fino ad un mese fa, nel campo profughi c’erano 12 mila migranti. Ora non c’è praticamente più nessuno. I ragazzi che arrivano al Centro di padre Dionysius vengono da Mali, Eritrea, Etiopia, Senegal, Sudan, Somalia. L’elenco è una geografia di Paesi messi duramente alla prova da guerre, instabilità politiche, cambiamenti climatici, povertà spesso estreme. I ragazzi – racconta il sacerdote – hanno alle spalle mesi, addirittura anni di viaggio, detenzioni, maltrattamenti. Mentre il francescano parla, alla porta si affaccia un ragazzo. Ha 26 anni. Viene dal Sudan. In jeans e felpa rossa, riesce a dire con voce incrinata dall’emozione, solo una parola: “casa”. Poi fa vedere un documento. Sembra un passaporto. Lo mostra come fosse la cosa più preziosa che ha. Ma il francescano gli dice che quel documento qui non vale a niente, che deve assolutamente richiedere un documento di asilo e che se viene preso senza quel “foglio”, rischia di tornare da dove è venuto, mandando in fumo tutto.

Al Peace Lab attualmente ci sono 54 ragazzi. Ma i numeri variano di continuo. Di mattina, c’è poca gente perché lavorano quasi tutti. Al centro possono mangiare, dormire, addirittura pregare in chiesa o in moschea. Ogni giorno, 4 medici garantiscono a turno un’assistenza sanitaria in una piccolissima clinica adibita nel centro. Per loro, ci sono anche sale dove possono incontrarsi e frequentare una scuola di lingua inglese e “general skills” per aiutarli ad affrontare la vita nei diversi paesi di approdo. Da una stanza esce Hasan. Ha 24 anni e viene dalla Somalia. Con il ragazzo sudanese fa da traduttore in arabo. La sua è una vita in viaggio difficile da seguire tra campi profughi, rotte in barca, tappe. Solo la destinazione finale è certa: ora vive qui.

Ride quando gli si chiede se ha un sogno. “Non lo so”, risponde. “Sarei contento di poter vivere una buona vita”.

“La guerra fa male, molto”, dice con faccia serissima padre Dionysius. “Fa male a tutti, ai vincitori e ai vinti. Uccide gli innocenti. Genera sofferenza, distruzione, morte. E più aumentano le guerre nel mondo, più aumentano le persone in fuga che vengono a bussare alle porte dei nostri paesi per chiedere aiuto”. Forte è il ricordo della giornata vissuta con Papa Francesco. “Doveva stare qui una mezzora”, racconta il francescano. “È rimasto tre ore e ha potuto parlare con i nostri ragazzi, conoscere le loro storie”. In quella occasione il papa parlò dell’importanza dei “luoghi di umanità”, luoghi dove le persone non sono trattate “come dei numeri, ma per quello che sono”, cioè volti, storie, “semplicemente uomini e donne, fratelli e sorelle”. “Siamo qui per dare testimonianza”, aggiunge padre Dionysius, “per rendere credibili le parole del Vangelo laddove Gesù dice: ‘Ero straniero e mi avete accolto’. I problemi non si risolvono con i seminari e i discorsi. Le ingiustizie e le povertà si affrontano solo andando a vivere con chi le subisce”. Tra le carte, il francescano prende un quaderno di appunti scritti a mano. Ne tira fuori uno scritto tanti anni fa:

“Devi vivere con la gente per conoscere i loro problemi. Devi vivere con Dio, per risolverli”.

Vuole dire qualcosa oggi a Papa Francesco? “Gli vorrei dire che il sabato e la domenica, la chiesa è pienissima di persone che pregano sempre per lui. Che Dio gli dia la forza perché possa continuare a diffondere, soprattutto laddove ci sono povertà e guerre, semi di amore e di speranza, e possa vederli crescere robusti e duraturi”.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir