Salmo 130. Questo è il grido che sale dall’abisso profondo della disperazione degli uomini e delle donne che da sempre chiedono a Dio di ascoltare la loro voce

Se solo il nostro cuore fosse largo abbastanza, sentiremmo i morsi della morte, anche senza che siano sulla nostra stessa carne, per i milioni di lutti sparsi nel mondo.

Salmo 130. Questo è il grido che sale dall’abisso profondo della disperazione degli uomini e delle donne che da sempre chiedono a Dio di ascoltar...

“Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore. Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora. Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore, perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.

Ho scelto di anticipare per intero il Salmo 130, il cosiddetto De profundis, perché, la profondità dell’abisso (appunto) di misteriosa sofferenza, espressa dal salmista, necessitava di un’attenzione speciale, un ascolto che sia di sincera compassione, intesa etimologicamente come capacità di vedere, toccare, davvero condividere la passione, il dolore dell’altro. Si succedono misteriose Dio-incidenze che suscitano in me non poca meraviglia. Perché proprio all’indomani della settimana appena trascorsa, tocca a questo salmo che è per antonomasia la preghiera nel momento del lutto? Lo abbiamo vissuto con enfasi nel Duomo di Milano, per un uomo che tutti pensiamo di aver conosciuto; oppure in una parrocchia di Bologna per una donna che ha affiancato un altro protagonista della vita politica del nostro Paese. Ma – anche se, senza ipocrisia, forse vi abbiamo posto mente per molti meno minuti – siamo stati immersi nel lutto atroce in un brandello di mare al largo di un’isola greca di cui non conoscevamo neppure il nome; oppure in una periferia di Roma, dove un bambino innocente è stato vittima di una tragedia che, purtroppo, non può chiamarsi fatalità. Se solo il nostro cuore fosse largo abbastanza, sentiremmo i morsi della morte, anche senza che siano sulla nostra stessa carne, per i milioni di lutti sparsi nel mondo. Dove, ogni secondo o quasi, senza che la nostra coscienza ne abbia affatto a patire, un bambino muore per una malattia che noi non consideriamo neanche più tale; oppure, senza andare tanto lontano, molti sono i lutti a chilometro zero: quelli efferati che riempiono la cronaca nera, nutrendo la morbosità di chi finge di scandalizzarsi perché l’amore diventa assassino; oppure le morti che nessuno neanche più registra, come quelle dei tantissimi anziani che si spengono nella solitudine di case troppo prive di visite, o in istituti affollati di presenze, ma tutte anonime. Questo è il grido che sale dall’abisso profondo della disperazione degli uomini e delle donne che da sempre chiedono a Dio di ascoltare la loro voce, soprattutto quando i loro giorni stanno giungendo alla fine e la domanda bruciante è una sola: “Che ne sarà di me? Che senso ha avuto questa mia vita, lunga o breve che sia stata?” Commuovono le parole che il Salmo offre alla nostra supplica perché si rivolgono a Dio con un “tu” che, come di consueto, è segno di una fiducia sconfinata nel Creatore che, anche se eterno, viene immaginato come un padre con orecchie attente alla voce… quasi fosse il pianto di un bambino che si sveglia per un incubo nella notte. Il salmista fa riferimento alle sue colpe, ma poi lo sguardo si volge tutto al Signore, l’unico Santo. Questo è l’invito: non ripiegarsi sul rimorso, sul rimpianto, neanche sul peccato oggettivamente commesso, perché tanto nessuno può presentarsi senza colpa di fronte ad una giustizia che è troppo più alta rispetto alle nostre debolezze: chi potrebbe resistere? Quanto più si percepisce l’amore di Dio, tanto più si sperimenta lo scarto – che è proprio quello della Grazia – fra quello che meriteremmo e ciò che invece gratuitamente ogni giorno ci è donato. Ecco, cos’è il timore – mai da confondere con la paura – è l’intima commozione per un perdono che ci previene e ci trasforma, quanto più lo desideriamo. Anzi, lo agogniamo come una sentinella che, pur assonnata, tiene aperte le palpebre e non vede l’ora e quasi propizia con il suo stesso sguardo verso l’orizzonte, il sorgere, all’aurora, del primo raggio di sole. Questa è la redenzione che ha compiuto Gesù per la vita di ciascuno di noi, perché il Figlio sulla Croce ha misteriosamente ma altrettanto concretamente espiato, con il sangue dell’uomo che era, ogni nostro peccato, per sempre. Egli “è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20). Se alla nostra stessa anima non è dato di giustificarsi come il Signore ci perdona, possiamo ben comprendere perché l’apostolo Giacomo scriva “la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc, 2, 13). Lasciando spazio al silenzio umile, alla partecipazione più intensa alle sofferenze e al mistero di luci e ombre che è la vita di ciascuno di noi, siamo chiamati, prima nelle nostre famiglie e poi, appena usciti, per ogni strada percorsa fra i fratelli, a vivere da redenti salvati: portatori di Cristo e di null’altro.

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Fonte: Sir