Casa di reclusione Due Palazzi. Qui la risurrezione è materia quotidiana

Casa di reclusione Due Palazzi- La parrocchia, segno della Chiesa di Padova, scommette ogni giorno sulla «risurrezione dei viventi» come racconta don Marco Pozza

Casa di reclusione Due Palazzi. Qui la risurrezione è materia quotidiana

Ti cammina accanto, lo sguardo s’incrocia: hai davanti un malfattore, un bugiardo, un ladro, un assassino. Eppure scorgi l’uomo. Con il suo pesante macigno di colpe e reati sulle spalle è un dannato “bandito” dal mondo, dopo che ha saccheggiato esistenze, offrendo la sua in cambio al male, lasciandosi sedurre dal potere. Ma a volte accade il non previsto.

Piccoli segnali, impercettibili movimenti fanno capire che qualcosa in quel corpo buio si sta trasformando, che la luce ormai è entrata. Ci sono cuori in carcere più freddi e impenetrabili della porta blindata di una cella: Dio sa farsi spazio in mezzo a quelle anime spezzate. Da lì capisci che una risurrezione è in corso. È questa la Pasqua che la parrocchia della casa di reclusione Due Palazzi vive, giorno dopo giorno, con molti dei suoi ragazzi. Don Marco Pozza, il cappellano, spesso afferma: «Prima di quella dei morti, credo nella risurrezione dei viventi».

Com’è possibile, don Marco?
«Troppo rischioso, per me, rifugiarsi nel futuro scansando il presente. Non è possibile credere nella risurrezione dei morti rifiutandosi, prima, di credere in quella dei viventi: di chi ha sbagliato e tenta, con fatica, di ritrovare l’equilibrio. In carcere c’è una Pasqua settimanale, oserei dire quotidiana: non è annuale. Qui ogni settimana è santa: in ogni giorno della settimana c’è una storia d’amore, c’è un amore che viene tradito, una morte, una possibile risurrezione. Considero queste storie una sorta di “caparra” della risurrezione più grande: un incentivo a credere che il cristianesimo non è una favola vintage inventata per ammorbidire la fatica del vivere, ma una storia che (ri)accade. Una storia che mi riguarda».

Perché Dio vuole riconquistare proprio chi non vuole più nessuno, chi ha violentato qualsiasi patto umano e sociale?
«Perché se la pecorella numero cento non torna a casa, a perdere la partita non è solo lei, è il Pastore stesso. È sempre difficile, da dentro il recinto, capire perché il pastore s’intestardisca a rischiare la faccia per andare a cercarla: non è facile nemmeno accettare questa predilezione per gli screanzati. Io stesso, per anni, ne ero infastidito. Poi, un giorno, sono stato io la pecora numero cento. E da là fuori l’unico antidoto allo sconforto più nero era che il bel pastore facesse “un colpo di matto” per venirmi a cercare. E che, cercandomi, mi desse la grazia di farmi trovare, portandogli come grazie la mia vergogna di prete».

Perché ci si dovrebbe prendere cura di Caino quando Abele non c’è più? Chi pensa a chi è stato violato, ferito, ucciso? Chi pensa a chi resta e non finirà mai, in questa esistenza, di scontare una condanna incolmabile al dolore e alla sofferenza?
«È da Caino che occorre iniziare per fare in modo che la famiglia di Abele possa trovare una qualche forma di giustizia, di risposta. È dai tempi di Abele, il giusto, che la vittima non può parlare. Si riparte da Caino perché soltanto lui ci potrà illuminare, se vorrà, il sentiero che porta nel sottoscala del male. Tendere la mano a Caino – lo so che apparirà bestemmia – è avere a cuore il destino di Abele: è cercare di fare in modo che Abele non sia morto invano. Senza la memoria di Abele, ricostruire Caino sarebbe poco più che uno spot televisivo, una sorta di bestemmia alla vita stessa».

Hai mai il dubbio che, in carcere, sia più facile credere?
«È la più rovente delle certezze. Qui dentro, al netto di tutto, il Vangelo accade sotto gli occhi, ci sbatti il naso dappertutto. Se nel mondo fuori, certe volte, c’è il sospetto che sia tutta una storia inventata, qui dentro tutto (ri)accade in diretta. Il paralitico, il cieco, il lebbroso, Giuda, Simone di Cirene, Veronica: questi, qui dentro, sono persone viventi, non personaggi di un Vangelo passato di moda. Sono il nostro appuntamento con la bellezza».

Chi entra in carcere, come volontario della piccola parrocchia del Due Palazzi, sa che ogni volta è come la prima volta. A uscirne saranno un uomo e una donna cambiati nella loro umanità e nella loro fede.
«Non saprei rispondere. Parlo per me, che sono un (don) Giuda che, su consiglio di Maria, è ritornato a chiedere scusa al suo Dio invece che farla finita in un periodo buio della mia storia. L’ho trovato sulla porta del carcere, nascosto tra i volti dei miei Barabba e quello affettuoso di papa Francesco. Mi ha trattato come fossi sempre stato il più fedele dei suoi amori: io che, in quel tempo, non meritavo nemmeno il suo sguardo. Oggi sono un guaritore ferito: le cicatrici che mi porto addosso resteranno la memoria della mia storia ferita. Sono le cicatrici la nostra vera Pasqua quotidiana: fallire non significa che ci si sia sbagliati».

Una parrocchia viva: liturgia, pastorale e carità

La cappellania della casa di reclusione Due Palazzi è guidata da don Marco Pozza insieme a tre diaconi (Marco Antonio Longo, Adriano Allegro e Sergio Villani), a suor Giselda Piccolotto, a padre Emanoel de Oliveira, a due frati antoniani in formazione (Grégoire Lefevre e Raphaël Garbay) e a una ventina di laici volontari. Sono moltissimi i servizi di pastorale svolti ogni settimana per più di 250 persone detenute (su 600 carcerati) che frequentano la parrocchia: la catechesi il sabato, l’adorazione eucaristica mensile, i colloqui individuali di accompagnamento umano e spirituale, la preparazione ai sacramenti, la cura per la liturgia e l’animazione delle celebrazioni, le testimonianze nelle parrocchie della Diocesi...

Inoltre, la parrocchia del carcere realizza, in collaborazione con la Caritas diocesana e alcune parrocchie della Diocesi, progetti di carità e di accompagnamento per il reinserimento sociale e lavorativo di chi inizia a muovere i primi passi fuori dalla detenzione.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)