Come stanno le parrocchie? È nella fatica che germina il futuro. Ne ragioniamo con un sociologo, due parroci, un vicario e il vicario generale

Come stanno le parrocchie? A inizio anno pastorale, il primo totalmente (o quasi) senza mascherine, ragioniamo con un sociologo, due parroci (uno in pensione) e il vicario generale su come le comunità cristiane camminano in questo tempo. Mons. Zatti «È inevitabile che ognuno vesta la fede a seconda dei contesti di vita in cui si trova e tuttavia in questo passaggio storico si vede la tentazione di fare da soli. Ma è la comunità che celebra, che vive, che sostiene il singolo»

Come stanno le parrocchie? È nella fatica che germina il futuro. Ne ragioniamo con un sociologo, due parroci, un vicario e il vicario generale

Questo articolo – dedicato agli interrogativi che oggi le parrocchie si pongono – comincia dalla fine. Dominique Collin,
teologo domenicano francese, nel suo libro Il Cristianesimo non esiste ancora (Queriniana, 2020) rovescia le amarezze e le preoccupazioni che accompagnano qualcuno di noi nelle fatiche che si sperimentano all’interno delle nostre comunità, fatiche ancora più pesanti dopo gli anni della pandemia. Per Collin il cristianesimo autentico – l’adesione al Vangelo e alla persona di Gesù Cristo – non è una tradizione del passato da conservare, da difendere o peggio ancora da “restaurare”, come se si trattasse di una rovina in disfacimento, ma è una promessa per il futuro, una promessa di felicità radicata nell’avvenire, e non solo quello ultraterreno. È il Regno di Dio annunciato da Cristo. Questa “conclusione anticipata” è una premessa doverosa per osservare le difficoltà oggettive e i “cambiamenti d’epoca” (cit.) con il giusto radicamento, senza toni apocalittici, ma anche senza sottovalutazioni dozzinali. Sta di fatto che nelle parrocchie, in questi mesi, le domande crescono sempre di più, tra i banchi rimasti vuoti per quei fedeli che dopo la pandemia non sono tornati a messa e gli sforzi pastorali di chi si prodiga a seminare, ma non sa se arriverà mai a gustare il giorno del raccolto. Per il sociologo delle religioni Alessandro Castegnaro occorre procedere con ordine: «Una volta i sociologi ritenevano vi fosse, più in Europa, meno in Italia e in Usa, un allontanamento dalla religione in generale. Oggi il giudizio è più articolato: è in crisi la dimensione dell’appartenenza a un sistema religioso, ma sembra stia invece tornando la domanda di spiritualità, una spiritualità più personale, che cozza con il modo tradizionale con cui le religioni, e il cattolicesimo in particolare, articolavano il rapporto con i fedeli». Abbiamo dunque a che fare con dei «pellegrini spirituali, persone che cercano e che non necessariamente concludono la loro ricerca con l’adesione a un sistema religioso specifico». Per Castegnaro «c’è uno scarto tra domanda e offerta ». Se prima infatti nella nostra società la fede si trasmetteva con il latte materno, e «non era un fatto di libera scelta, perché ci si aspettava che un giovane cresciuto in una famiglia cristiana rimanesse cristiano», oggi invece il fattore libertà è dirimente. «L’adesione alla religione – spiega il sociologo – è ritenuto un fatto di libertà». Nelle storie raccolte negli ultimi anni da Castegnaro, c’è spesso nei fedeli un momento di allontanamento generalizzato, a cui segue, per chi vuole continuare, la decisione di proseguire. E gli altri? «La grande maggioranza non li vediamo più, ma perché nessuno va a cercarli. Spesso si tratta di giovani in cui le domande religiose entrano in stand by, ma non sono annullate». I “rientranti” spesso sono mamme quarantenni che seguono il percorso dei figli: «È interessante osservare come le cinquantenni si allontanino di nuovo, quando riscontrano di non aver trovato nel frattempo quello che serviva loro». La grande sfida dell’era dell’individualismo è la creazione, nelle parrocchie, «di ambienti accoglienti in cui confrontarsi con altri». E se la parrocchia rimane fondamentale per le domande di carattere sacramentale, «bisognerà favorire la nascita di gruppi e situazioni di carattere elettivo». La qualità, dunque, più che la quantità.

Don Carlo Tosetto ha 83 anni. In più di mezzo secolo di ministero come parroco ha visto cambiare profondamente il tessuto della nostra società. E le parrocchie? «Non sono cambiate molto – confida – il cambiamento è difficile. Il problema di fondo è che abbiamo a che fare con verità eterne, e, per questo, abbiamo reso eterne anche le strutture. Ma ciò che è importante è il contenuto, non il contenitore». Di più, gli sforzi per la conservazione potrebbero distoglierci dal vero obiettivo: «A volte siamo più preoccupati delle strutture religiose che della fede vera e propria. Siamo tutti molto religiosi, siamo attaccati alle formule, ai pellegrinaggi, alle celebrazioni e mettiamo in secondo piano Gesù Cristo, è lui che fa la comunità cristiana. Il papa parla di Chiesa in uscita, mentre spesso invece di andare fuori a incontrare le persone ci sforziamo di chiamarle dentro, quando invece bisognerebbe testimoniare la gioia e trasmettere il piacere di accogliere e di volere loro bene». Don Massimo Draghi, da quattro anni parroco al Duomo di Piove di Sacco, parla di «una Chiesa affannata» usando la metafora medica dell’aritmia: «Il suo cuore ha perso un po’ il ritmo giusto, e a volte non riesce a raggiungere tutti i punti del corpo. Per questo, è giunto il tempo della “cardioversione”, quella scossa che i chirurghi ci danno per ritrovare il ritmo giusto del cuore». Don Draghi suggerisce due elettrodi: «Il primo è la Parola di Dio, il secondo è la vita della comunità in senso ampio». Sono questi, insomma, i livelli su cui tararsi: «Vedo che c’è tanto dinamismo, tanto affanno, ma si rischia la fibrillazione. Concentrarsi sulla vita delle persone e sulla Parola di Dio ci mette anche in ascolto di quel desiderio di cambiamento, di nuove modalità sulle quali attivarci». Nulla di esteriore, nessuna ricetta magica. Ma un ascolto che va – letteralmente –dritto al cuore: «Vedo motivi di speranza nella vitalità dei giovani, nonostante i rallentamenti, e nel successo di alcuni itinerari che si basano sulla riscoperta della Parola di Dio». E se la parrocchia che verrà «avrà forse una struttura e una forma diversa, meno legata alla dimensione territoriale e più a quella relazionale», è perché «la comunità cristiana è fatta di relazioni basate sulla speranza che viene dalla Parola di Dio, nel sentire che il Signore cammina, è presente, addirittura ci anticipa nella strada».

La pandemia? «Ha messo in risalto e ha accelerato dinamiche di scollamento che già vedevamo in ambito ecclesiale». Il vicario generale della diocesi di Padova, mons. Giuliano Zatti, prende atto di una preoccupazione diffusa tra i preti padovani: «Dopo la pandemia la comunità non si è ricomposta. C’è una disaffezione dilagante nella partecipazione alla vita liturgica. I numeri che abbiamo sono ancora elevati rispetto ad altre Diocesi in altre zone d’Italia, eppure non ci possiamo nascondere come di fatto stiamo camminando verso la minorità. In questo momento la parrocchia, può sembrare un giudizio amaro, è un luogo di servizi, ma deve recuperare anche in maniera più persistente e più convinta la sua anima educativa, culturale ed evangelica. E, soprattutto, restare ancora presenza significativa». «Quando, nella pandemia, abbiamo proposto il progetto “La carità nel tempo della fragilità” lo abbiamo fatto per recuperare attenzione e relazioni. Anche qui però abbiamo sperimentato la fatica generale, comune a tutta la società e alla politica, dell’individualismo e della crisi della partecipazione». E paradossalmente proprio oggi diventa più difficile applicare lo Spirito del Concilio Vaticano II, che molto insisteva nella corresponsabilità della comunità dei laici. Ed è la chiamata di chi deve nuotare controcorrente per vivere la sua natura: «Nel mondo lavorativo ci sono tanti singoli che fondano start up, eppure la Chiesa si fonda sull’essere gruppo, sul fare squadra». In questa prospettiva, quella che consideriamo una crisi sistemica delle parrocchie non è che un sintomo, ben più profondo, di una fede che ha messo da parte il “noi” e che parla solo con il linguaggio dell’“io”. Un “io” che soffoca, in un lockdown dell’anima, la voce del fratello. «È inevitabile che ciascuno vesta la fede a seconda dei contesti di vita in cui si trova e dei suoi spazi ideali e tuttavia, in questo passaggio storico si vede, in modo ancora più marcato, la tentazione di fare da soli, ma è la comunità che celebra, che vive, che pensa, che dà fiducia e sostiene il singolo. E questo manca nella dinamica del singolo che va a messa solo in quel tale santuario lontano, che rifiuta il mondo ecclesiale, che si rifugia nel timore o in forme di rigore contro cui spesso papa Francesco ci mette in guardia». Certo, «è importante che ciascuno abbia una fede matura», “di elezione” direbbe Castegnaro, ma oltre le fatiche, le disaffezioni e a volte persino gli scandali, è tempo di conoscere il sapore autentico della comunità dall’interno. «Custodiamo il tesoro dell’annuncio cristiano, un seme che ha tutte le potenzialità del futuro – conclude mons. Zatti – Forse dobbiamo, oltre le fragilità e i messaggi inquietanti che vengono dal Nord Europa, ripeterci come la Chiesa non sia un’invenzione umana ma una realtà che ci precede. Ogni generazione ha avuto i suoi tempi, questo è il nostro tempo di annunciare un Vangelo sempre attraente. Siamo consapevoli della fatica, ma è nella fatica che germina il futuro».

Patronati vuoti? Provocazione da cogliere

Don Davide Ciucevich, vicario parrocchiale a Limena, uno dei sei preti novelli dell’annata 2022, non si rassegna: «I segni di speranza ci sono. Li dobbiamo curare e coltivare insieme. C’è il Vangelo, che resta bussola valida; c’è lo Spirito Santo, che non manca di soffiare sulle vele. E poi tanti uomini e donne che si spendono con fede, con passione per il Regno di Dio». I numeri dei fedeli che partecipato, soprattutto dopo il Covid, sono calati, ma «anche se manca la continuità nel partecipare alla messa, quando le persone vengono invitate, ad esempio per la catechesi o per il grest, vengono volentieri. Forse ci dobbiamo chiedere se chi viene oggi a messa non trova risposta alle domande, o forse siamo noi che non riusciamo a suscitarle, quelle domande». Per don Ciucevich i patronati vuoti sono una provocazione da cogliere: «Facciamo fatica non solo a realizzare una pastorale diversa, ma anche solo a pensarla», ma il rischio è quello di «farsi prendere dalla cupezza generale e non vedere i frutti che crescono».

La Difesa si interroga sulla Chiesa oggi

Se dovessimo fotografare la Chiesa oggi – con un occhio, in particolare, a quella di Padova – che immagine ne
uscirebbe? Prima di azzardare qualsiasi risposta, mettiamo bene a fuoco e... osserviamola. Senza dimenticarci, certo, che la Chiesa locale ha uno sfondo universale da cui non può prescindere per definirsi. È cattolica, infatti, la Chiesa. Osserviamola, quindi, nelle sue luci e nelle sue ombre; nelle sue gioie e nelle sue fatiche. Osserviamola nelle pieghe e interroghiamoci. È quello che fa la Difesa ogni domenica e che intende fare ancora di più con una serie di “inchieste”, di mese in mese, sulla Chiesa oggi. Inchieste senza sconti e oneste, ma sempre – davvero sempre – con uno sguardo di speranza. Quello che ritroviamo in questa prima “puntata” in cui ci chiediamo come stanno le nostre parrocchie dopo due anni di pandemia con la secolarizzazione che avanza (già da tempo).

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