Don Cristiano Bortoli. Una vita di continue rinascite. Contagiosa per i tanti con cui ha camminato

Viene ricordato questa domenica, 10 settembre, a dieci anni dalla scomparsa, nel “suo” centro universitario

Don Cristiano Bortoli. Una vita di continue rinascite. Contagiosa per i tanti con cui ha camminato

«Sono nato ad Asiago, un paese dell’altopiano del quale ho molto cuore, molta memoria... la memoria del silenzio dei boschi, del rumore di piccoli animali quando tutto tace... la memoria di distese bianche durante l’inverno... la memoria di cieli pieni di stelle d’estate... di tanti campanili che si salutano parecchie volte al giorno tra loro con le campane ... come degli amici». Così scriveva don Cristiano Bortoli – di cui si ricordano i dieci anni dalla scomparsa – in Come brezza leggera (Padova 2004, pp. 11-12). I tanti che gli hanno voluto bene si ritrovano domenica 10 settembre dalle 10 alle 17 nel “suo” centro universitario di via Zabarella 82 per una giornata dal titolo “Da inizi a nuovi inizi...”. Questa, che è stata la cifra della sua biografia interiore, è da lui stesso raccontata in Come brezza leggera: «La mia famiglia non era diversa dalle altre di allora: i miei nonni, i miei genitori, gli zii sono andati raminghi per il mondo per ragioni di lavoro, non solo in Europa ma anche in America. Questo ha creato in me una certa dose di curiosità, di voglia di girare, di guardare. La mia famiglia era praticante, religiosa, com’era a quel tempo, in cui la fede era comune come mangiare il pane. Non si poneva nessun dubbio. A dieci anni sono entrato in seminario: prima a Thiene, poi a Padova. Vi ho ricevuto un’educazione che continuava quella della famiglia, ma che calcava molto (o almeno adesso la vedo così) le regole, le norme, una certa asprezza nel configurare la giornata: non tanti giochi, poca indulgenza al sentimento, poco lascito al cuore. Il cuore sembrava scomparso. Pareva una debolezza educare il cuore, come se il Signore avesse sbagliato a darcelo. Mi sono accorto che questa educazione ha corroborato molto la mia interiorità ma mi ha reso propenso ad avere la verità in tasca, a dare giudizi. Poi ho fatto alcune belle esperienze. Sono stato presente agli inizi della comunità monastica di Bose, dove ho imparato l’amore alla Parola di Dio e ad una vita molto semplice. Ho avuto la fortuna di fare l’esperienza con le comunità di Spello, dalle quali ho imparato la preghiera silenziosa, l’immersione nella natura, un lavoro attento pregando. A Viareggio sono stato tra le prime comunità di preti operai: l’esperienza mi ha sconcertato. Prima la vita mia era stesa sui libri, viaggiava sulle idee, sul tutto fatto e sulla testa. Lì ho incontrato la vita rovesciata, com’è dall’altra parte: la vita di persone che venivano lì a proporre i problemi della famiglia, le falde dentro, le ferite del cuore, gli errori ... e lì mi si è rovesciato un po’ tutto. Poi c’è stata la grande esperienza in mezzo ai giovani prima alla Fuci e poi al centro universitario. Se la Fuci è stata per me una rinascita, l’esperienza del centro ha inaugurato un ciclo di rinascite che mi ha portato a sentire e a respirare con l’autenticità e la libertà proprie dei giovani».

Il ricordo di Giovanni Realdi. Veicolo verso il Maestro

«Sembrava veramente come l’uomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Così Arturo Paoli descrive il maestro dei novizi tra i Piccoli fratelli. Nei primi anni di università, messo in crisi da logiche parrocchiali sempre più anguste e dall’isolamento culturale della Fuci, trovai approdo al centro universitario. Nulla a che vedere tuttavia con appartenenze forti o strutture solide: quel che là incontravo era la certezza di una possibilità, la fede come domanda continua. Proprio questo sguardo disarmato, non violento, anti-ideologico torna alla mente e al cuore, pensando a don Cristiano Bortoli. Venivo dall’assidua lettura di Turoldo e trovai una persona illuminata che ne citava i versi; intuivo la medesima radicalità del servita, ma con una dolcezza per me nuova. Durante la consacrazione o per la benedizione finale aveva un modo tutto suo di allargare le braccia, precarie e accoglienti. «Non sapendo quando verrà l’alba, io spalanco ogni porta»: una disponibilità totale nel farci partecipi dei suoi dubbi, senza vergognarsene. La sequela perdeva la rigidità di una Chiesa vincente per farsi comunità danzante. Attento ai fermenti della Chiesa e della cultura, non temeva di ospitare personalità marginali e talvolta scomode, purché genuinamente in ricerca. Sentivo, dialogando nella minuscola sagrestia di Santa Lucia, come non amasse esser considerato un riferimento definitivo, come fuggisse le incomprensioni tra i gruppi che in tempi diversi si era trovato ad “allevare”. Intendeva restare solamente un veicolo verso il Maestro, più simile al Battista che non a Pietro. Gettare lo sguardo sempre al di là: qualcuno avrebbe potuto trovarlo semplicemente eccentrico. Invero, in ciò era radicale: il centro a cui additava non era mai il proprio discorso, ma sempre e comunque il Sacro. Ci ha preceduti e nello stesso tempo ci sta ancora alle spalle, come la misteriosa figura dietro il piccolo Isacco delle vetrate di Taizé: con una mano custodisce, con l’altra spinge verso il sogno del mondo.

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