«È il Vangelo che ci chiama a servire». Intervista al vescovo di Padova Claudio Cipolla

Intervista. Il vescovo Claudio Cipolla si rivolge alla Diocesi nel pieno della pandemia: «Proviamo il dolore nella nostra pelle, ma per la nostra fede mettiamo in pratica una carità creativa». È il tempo di un nuovo I care alla don Milani

«È il Vangelo che ci chiama a servire». Intervista al vescovo di Padova Claudio Cipolla

C’è molta bellezza nelle vite delle nostre comunità. Ci sono vite che nella semplicità dello scorrere dei giorni sono in grado di interpretare il Vangelo mettendosi a servizio degli altri nelle comunità. Le 31 persone che la Chiesa di Padova, per voce del vescovo Claudio, ha voluto ringraziare nella solennità di San Prosdocimo – sabato 7 novembre nella basilica di Santa Giustina – iscrivendole nell’Albo dei servitori fedeli, rappresentano un grande segno di speranza capace di illuminare la “notte” carica di ansie e di preoccupazioni, proprio mentre gli effetti della pandemia da Covid-19 torna a farsi sentire pesantemente sul tessuto sociale del nostro Paese e della nostra città.

Nella Giornata mondiale dei poveri, voluta da papa Francesco, che quest'anno si celebra domenica 15 novembre, il vescovo Claudio Cipolla invia il suo messaggio alle comunità e ai singoli cristiani della Diocesi, guardando alle povertà emergenti, rese ancora più preoccupanti dalla pandemia.

Vescovo Claudio, qual è il suo sentimento di fronte alla sofferenza di tante persone che vivono la malattia o l’incertezza per il proprio futuro?

«Anzitutto correi sottolineare che tutti noi cristiani ci sentiamo parte del dolore. Molti tra noi, anche preti, partecipano di queste difficoltà, non siamo estranei e non siamo solo quelli che devono servire, ma siamo parte di color che stanno soffrendo. Tuttavia possiamo essere portatori di una solidarietà sociale più profonda, favorirla: sempre di fronte alle difficoltà bisogna stare insieme e unirsi, la nostra Chiesa e la nostra realtà sociale devono sapere unirsi e coalizzarsi, creare forme di collaborazione e sostegno reciproco, una solidarietà molto più vera e profonda. Oggi abbiamo la grande occasione per riscoprire atteggiamenti e sentimenti comuni quando non vivevamo nel benessere di oggi e che abbiamo in qualche modo messo in disparte a vantaggio di una vita molto più individualista e autonoma».

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Nella recente enciclica Fratelli tutti papa Francesco scrive che alla base di una vita sociale sana e aperta c’è la carità. Forse in questo tempo siamo chiamati anche ad applicare a alla carità una nuova creatività?

«Le due parole carità e creatività devono camminare insieme, oggi in modo particolare. Non si possono ripetere forme di vicinanza nella povertà che avevamo nel passato. Occorre trovare strade veramente nuove per essere vicini a chi è più in difficoltà, è toccato dall’angoscia, dall’ansia. Penso alle famiglie che hanno il problema del lavoro o che vivono la malattia: proprio ieri mi ha chiamato un amico, un giovane, che mi comunicava il ricovero del suocero in terapia intensiva e stava per essere intubato. Sono notizie davvero terribili e noi dobbiamo trovare il modo per essere vicini gli uni gli altri in queste situazioni in modo nuovo. Per noi cristiani significa diventare artefici di vicinanza, favorire l’unione, la comunione, la solidarietà. Anche semplicemente per i genitori che devono lavorare e stare con i bambini in casa perché magari un compagno o una maestra sono risultati positivi al Covid. In queste occasioni occorre che noi ci aiutiamo molto di più e che riscopriamo una solidarietà sociale molto più forte e significativa».

Forse noi cristiani per lungo tempo abbiamo pensato di poter delegare la carità agli operatoridelle nostre Caritas parrocchialiÈ questo il tempo di un nuovo I care alla don Milani che ci interpella personalmente.

«Il fatto che noi ci troviamo come credenti per ascoltare il Vangelo fa di noi necessariamente operatori di carità: ciascuno di noi. La Caritas ha il compito di educare la comunità a essere capace di promuovere carità e giustizia tra tutti i componenti della comunità. A messa sentiamo sempre parole molto più belle di noi, ma quando usciamo siamo tutti noi, insieme, a dover metterle in pratica: nel nostro condominio, con il vicino di casa o la persona malata che conosciamo. Tutte queste persone sono i destinatari della mia fede, che mi porta a interessarmi a tutti coloro che sono in difficoltà, dal punto di vista economico, sanitario, delle relazioni. Quando si troviamo a messa in cinquanta o in cento, ebbene, siamo tutti missionari della carità. In questo senso non possiamo parlare di delega, non possiamo incaricare qualcuno di fare la carità per noi, si tratta di un atteggiamento proprio di ogni cristiano. Tra l’altro per noi la carità non è soltanto aiutare praticamente, ma anche costruire relazioni, promuovere i diritti delle persone che sono in difficoltà. La nostra attenzione alla politica della sanità, per esempio, è importante. Come cristiani dobbiamo promuovere un contesto sociale che sia governato a servizio dell’uomo».

C’è però un cruccio che lo stesso mons. Giovanni Nervo, fondatore 50 anni fa di Caritas italiana, si è portato sempre con se: come educare coinvolgere la comunità tutta?

«Si parte dai piccoli gesti, da quell’atteggiamento del cuore che riporta a creare relazioni di carità. Non ci sono gesti da ripetere, c’è una postura spirituale che ci mette di fronte agli altri come persone che vanno alla ricerca di chi è in difficoltà: a volte basta una telefonata, aiutare un anziano, oppure anche sostenere economicamente per chi è in difficoltà nel lavoro, e su questo stiamo mettendo a disposizione delle nostre comunità parrocchiali sostegni perché possano a loro volta aiutare e incentivare la solidarietà all’interno di loro stesse. Mons. Nervo – a cui vorremmo dedicare questo anno perché meglio di tutti ha interpretato l’importanza di aiutare le persone promuovendole, cercando la loro identità profonda, facendo in modo che fossero riconosciuti i loro diritti - ha coniugato sempre carità e giustizia e in questo non c’è una strada già stabilita, ci sono una sensibilità e una mentalità da creare, e in questo noi cristiani dovremmo essere un passo più avanti della nostra società perché abbiamo un’ispirazione spirituale che ci spinge a occuparci degli altri per la fede che abbiamo nel Dio della carità».

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In queste settimane diverse comunità della Diocesi si stanno attivando attorno al Sostegno sociale parrocchiale mentre un prete, don Marco Galanteviene inviato in pianta stabile accanto ai malati al Covid hospital di Schiavonia. Quale il significato profondo di queste scelte?

«La prima scelta, che riguarda le nostre comunità, sfrutta il grande vantaggio della capillarità: anche nelle piccole frazioni più piccole c’è una comunità di cristiani e questo ci porta a essere un canale di attenzione diffuso ovunque, dobbiamo metterci a disposizione facendoci attenti, alle sofferenze e trovando mezzi, tra cui quello economico, per essere d’aiuto. Un’attenzione particolare in questa emergenza la merita chi cade vittima di Covid19. Penso a tre gruppi di persone. Anzitutto gli ammalati: sapere che c’è qualcuno che comunque vadano le cose può dire una preghiera con te e recitando una preghiera ti è vicino, come segno di una vicinanza della tua comunità e di Dio. La seconda è la categoria dei famigliari: chi accompagna un proprio caro nella malattia soffre a sua volta con un’angoscia e un’ansia che a volte non sappiamo contenere, ma possiamo imparare a farci vicini anche in queste situazioni. E c’è un terzo gruppo di persone: gli operatori nel campo della salute, e quindi non solo i medici o infermieri, ma anche i portinai degli ospedali o chi si occupa delle pulizie. C’è tutto questo mondo che deve servire gli ammalati e che in tutto questo tempo sarà sottoposto a un impegno molto maggiore di quanto non sia alla normalità. Ebbene tutte queste persone devono sarpere che c’è un motivo per cui si lavora tanto e questo motivo sono gli altri che soffrono. Si tratta di un’occasione di servizio bellissimo per i cristiani e anche per i non cristiani, serviamo la bellezza di una persona. Ecco allora la decisione di un prete a tempo pieno, “recluso” nell’ospedale per un mese, per non contagiare altri uscendo: è il segno della disponibilità della chiesa a essere in mezzo a queste situazioni di povertà e di sofferenza che inevitabilmente si incontrano in questo difficile momento».

Quale messaggio vuole inviare, vescovo Claudio, ai cristiani e alle nostre comunità?

«Vorrei invitare tutti a radunarsi, ognuno nella propria comunità e valutare questa pandemia coma una di quelle situazioni che ci interpellano direttamente. Da vescovo dico che oggi è il Vangelo che ci interpella, è il Signore che chiama noi cristiani a unirci sempre più tra di noi e a metterci a disposizione di chi si trova in difficoltà ovunque, nel lavoro, nelle condizioni di salute».

Il saluto ai sindaci impegnati per il bene comune

I primi cittadini, che il vescovo ha incotrato durante la visita pastorale interrotta a marzo causa Covid e negli ingressi dei nuovi presbiteri erano presenti a Santa Giustina il 7 novembre. «Un'occasione di incontro e di riconoscenza da parte mia - ha sottolineato il presule – per l'impegnativo servizio che svolgono per il bene comune con tanta dedizione e tanto sacrificio». L'incontro ristretto tra vescovo e sindaci, già tenutosi gli scorsi anni, non è stato possibile per le norme anti contagio ma nell'omelia di San Prosdocimo il vescovo ha auspicato piena collaborazione in sincera solidarietà tra amministrazioni e comunità cristiane per far fronte all'emergenza.

Scrivere pagine di Vangelo con la propria stessa vita

Sabato 7 novembre il vescovo Claudio ha inaugurato l'Albo dei servitori fedeli della Diocesi di Padova, laici che per anni hanno servito nella propria comunità o in altri enti diocesani, in forma ordinaria e silenziosa, edificando così la Chiesa. Nella sua omelia a Santa Giustina mons. Cipolla ha sottolineato quanta bellezza già sia presente nella vita delle comunità cristiane e quanto sia urgente raccontarla, fare conoscere il valore di queste esperienze ordinarie, capaci di accendere la speranza di fronte alla pandemia. Ai primi 31 fedeli riconosciuti, alcuni coppie di sposi, il vescovo ha detto che con la loro esperienza hanno scritto intense pagine di Vangelo e hanno dato valore al cammino dello scorso anno pastorale che ci ha tutti convocati al fonte per fare memoria del battesimo da adulti, elemento chiave in un tempo di trasformazione della fede stessa.

La chiamata alla fede di Cristo di giovani e adulti

«A noi di antica tradizione sembra quasi strano eppure siamo proprio noi adulti battezzati i portatori di un Vangelo che va seminato ovunque, in casa, sul luogo di lavoro, come in quello del divertimento». Così il vescovo Claudio rivolgendosi ai laici iscritti nell'Albo dei fedeli servitori e ai sindaci in occasione della memoria liturgica di San Prosdocimo, poensando ai 70 anni di Villa Immacolata e del Cuamm e dei 60 dell'Opsa: tre luoghi che rappresentano le foindamenta della nostra chiesa, l'interiorità, la fraternità universale, il servizio ai più piccoli e fragili. Ma il pensiero di mons. Cipolla andava all'indomani, domenica 8 novembre, quando in Cattedrale ha ammesso al cammino del catecumenato 25 giovani e adulti che hanno chiesto il battesimo. Un rito emozionante segnato da due consegne: quella della croce all'inizio sul sagrato, e quella della Scrittura.

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