Fine del cristianesimo o fine della cristianità? Don Giuliano Zanchi al dies academicus di venerdì 10 novembre

Fine del cristianesimo o fine della cristianità? Questa è l’impegnativa domanda con cui ha esordito don Giuliano Zanchi nel suo intervento al dies academicus che si è svolto venerdì 10 novembre presso la sala Pio X del seminario di Padova.

Fine del cristianesimo o fine della cristianità? Don Giuliano Zanchi al dies academicus di venerdì 10 novembre

L’evento ha aperto ufficialmente l’anno accademico dell’Issr-Istituto superiore di scienze religiose di Padova. A don Zanchi – presbitero della diocesi di Bergamo, docente di Teologia all’università Cattolica di Milano, nonché autore di vari studi e pubblicazioni – è stato affidato il compito di tentare di indagare intorno a questo tema. Dopo una breve introduzione del direttore dell’Istituto, don Livio Tonello, e il saluto da parte del preside della Facoltà teologica del Triveneto, don Andrea Toniolo, spetta a don Zanchi una riflessione sulla transizione della cristianità nel nostro tempo. Nei dibattiti, si parla di esodo, di diaspora, di cambio d’epoca: tutte analisi motivate dalla diminuzione dei praticanti, dal calo numerico e dall’invecchiamento del clero. Siamo veramente gli ultimi cristiani o ci sono segnali per interpretare in modo diverso? Non è, invece, solo la fine di un certo modo di essere cristiani? Come interpretare la transizione?. Oggi, il vecchio mondo parrocchiale, che ha strutturato la società fino a qualche decennio fa, si sta rapidamente sgretolando, senza controllo, e verso esiti che lasciano poco spazio all’imprevedibilità. Secolarizzazione, esculturazione, uscita dalla religione, fine della cristianità, sono i molti termini usati per descrivere le trasformazioni che hanno portato molte persone a sottrarsi a una realtà cui sentono di non appartenere più: è un disinteresse crescente, lento e inesorabile. Questa freddezza ha mutato anche la posizione stessa dei credenti nei confronti delle tradizionali forme di appartenenza cristiana, considerate sterili: la chiesa si sente isolata e i pastori sono disorientati. È fondamentale, però, discernere il momento, saper leggere la situazione nel tempo e nello spazio che occupa, per capire che queste transizioni riguardano solamente le nostre latitudini europee, occidentali, dove è la scienza e la tecnologia a mettere a tacere la coscienza credente. Il senso religioso resiste nelle aree del mondo che non sono legate a questa storia culturale, dove solo le spiegazioni scientifiche la fanno da padrone, e cioè in Africa, in Asia, e in America latina. L’occidente, allora, sarà il futuro del mondo? Non sappiamo esattamente che cosa ci riserverà il futuro, ma è nostro dovere capire cosa succede nel nostro mondo, dove siamo chiamati a vivere alla luce del Vangelo. Che tipo di crisi stiamo vivendo? Si possono riconoscere vari fattori che si sono stratificati, quali la crisi di un pensiero della trascendenza e un imporsi della cultura agnostica: è la “crisi di Dio”, che letterati e saggisti si compiacciono di scrivere con la “d” minuscola. Ma tutto questo non fa scomparire la religione, che è tornata sulle scene in modo vigoroso, come rilevato anche dai sociologi. È un ritorno di Dio, tanto è vero che non si parla più di secolarizzazione, ma di post-secolarità, qualcosa che viene dopo la secolarizzazione. Oggi, le istituzioni hanno perso la loro influenza, a vantaggio di pratiche globali. L’associazione parroco/chiesa/villaggio è infranta per sempre. Ma il ritorno del senso del religioso, inteso come ricerca di valori e sete di senso, assume caratteristiche tendenzialmente gnostiche, misteriche, orientaleggianti, indirizzate a una sacralizzazione della natura, in cui il sacro si deposita nella dimensione psichica. Cosa possiamo dire di un simile scenario? È solo morta la cristianità o lo stesso cristianesimo è minacciato dal declino? E il declino riguarda il cristianesimo o le sue chiese? È in crisi la chiesa o “questa” chiesa? Riflettiamo su quello che si estingue e su quello che resta della lunga avventura cristiana. Anche gli atteggiamenti degli stessi cristiani hanno assimilato i caratteri tipici della nuova sensibilità religiosa, cioè “personalizzanti, anti-dogmatici, sperimentali”: si cercano esperienze che corrispondano alle parole. La chiesa ha il dovere di immaginare un suo futuro, a patto di non farlo solo revisionando l’esistente: deve pensare all’inedito e tener conto anche delle perdite. Sono indispensabili alcuni cambi di passo: accettazione dei limiti, visti come principio della realtà; pensare che il cristianesimo sia meno vero perché è meno forte; trovare le qualità per non essere insignificante perché possiede risorse; evidenziare la possibilità di un ruolo profetico; creare relazioni autentiche; passare dall’esclusività all’inclusione; risignificare la ritualità... La chiesa deve essere immagine di Gesù, lo stile deve essere quello della testimonianza di Gesù. L’attuale cultura guarda anche all’orientamento sessuale, si parla di fluidità di genere: anche la chiesa deve pensare a queste persone, molte delle quali sono credenti. La chiesa viene misurata nella sua capacità di accogliere: devono interessare le persone prima delle idee. Anche il rito si sta trasformando: la Messa non attrae più grandi masse di fedeli. Per dieci secoli, la Messa è stato un rito di socializzazione di massa: oggi i grandi riti si sono spostati in altre dimensioni. La fine della cristianità non è la fine del cristianesimo, e men che meno l’oblio del Vangelo. Il sacerdozio della chiesa, come quello di Gesù, consiste nel sacrificio (lettera agli Ebrei). Gesù ha sacrificato se stesso perché potessimo incontrare il vero Dio. Si tratta di una conversione: deporre l’orgoglio e rinunciare alla sicurezza, cedere il passo allo spirito. Il Sinodo fa parte di questi sforzi, ma non è un punto di arrivo: è solo l’inizio di un percorso.

Al dies academicus è intervenuto anche don Gaudenzio Zambon, ora docente “emerito”, che in quanto professore di Teologia dell’evangelizzazione, ha dato un contributo sulla realtà del cristianesimo a livello globale. Don Zambon ha portato i presenti idealmente in giro per il mondo, partendo da ciò che dice il sociologo Pace: le religioni si muovono con il movimento delle persone e, muovendosi nel mondo, le religioni cambiano in vari modi. Anche lo storico Jenkins dice che il cristianesimo deve essere globale: se si definisce europeo, americano o africano, tradisce questo ideale, perché non può essere limitato a un continente. Da queste affermazioni si evince che il cambiamento del cristianesimo e delle chiese vanno di pari passo, un moto reciproco, anche se asimmetrico. La chiesa è la casa del cristianesimo, ma se cambia la geografia del cristianesimo, cambia anche il futuro della chiesa. Alcune cifre ci restituiscono uno sguardo concreto: il maggior numero di cristiani, 36%, è nelle Americhe, in Europa il 25%. Ma negli Stati Uniti e in Europa sta crescendo il numero delle persone che non si riconosce in nessuna religione (16% in Europa). Nell’Africa sub-sahariana, i cristiani sono il 23%, ma la popolazione africana è in rapido aumento: si stima che, nel 2050, gli africani saranno il 25% degli abitanti del pianeta e il 33% dei cristiani nel mondo. I cristiani neri diventeranno più del doppio di quelli europei. I cristiani dell’Asia (area del Pacifico) sono il 13%, ma è difficile tener conto dei cristiani in Cina. La difficoltà sta nel reperire le fonti: quelle governative e quelle domestiche riferiscono dati che si discostano molto fra loro. L’Indonesia ospita più cristiani di tutti i venti paesi del Medioriente. Due considerazioni: il cristianesimo sta crescendo nel sud del pianeta e la nuova chiesa globale avrà il suo baricentro in America latina, Asia, Africa. Questo influirà nell’elaborazione dell’esperienza della fede e nella rappresentazione delle credenze religiose. I fattori demografici provocano cambiamenti nelle forme prevalenti delle religioni e l’età influenza anche il risveglio religioso (una comunità giovane sarà più disponibile a un revival religioso). I tratti fisiognomici del cristianesimo sono dati dalla cultura e dai valori custoditi nei riti, nelle pratiche delle tradizioni religiose. In America latina, il contesto sociale di povertà produce – come dice papa Francesco – “inequità”, che lui definisce come la radice dei mali sociali. Ma la realtà si capisce meglio se la si guarda partendo dalle periferie: è lì che si comprende che la religione deve essere di popolo, e che è possibile evangelizzare in situazione di criticità. La chiesa, per essere per i poveri, deve essere povera. L’opzione preferenziale per i poveri è entrata nella relazione di sintesi del Sinodo dei Vescovi che si è svolto di recente, e questa scelta è stata votata pressoché all’unanimità, andando oltre il concilio Vaticano II, il primo nella storia che ha trattato della povertà in maniera esplicita (anche se con dei limiti). Se i cristiani dell’America latina venissero interpellati per rispondere alla domanda “perché siamo cristiani e perché siamo chiesa?”, probabilmente prenderebbero a prestito le parole di papa Francesco e direbbero che lo sono per vivere la gioia dell’incontro con Cristo come liberazione dal peccato, dalla tristezza, per la gioia di essere popolo di Dio, tutti discepoli missionari, perché Dio ha dotato la totalità dei fedeli di un istinto di fede, il sensus fidei.

Le culture africane hanno un senso della solidarietà e della vita comunitaria: le feste sono condivise con l’intero villaggio, come una famiglia allargata. Alcuni valori positivi, come un forte senso del soprannaturale, hanno nutrito la lotta contro la segregazione razziale e per l’indipendenza. Gli storici notano che questi movimenti sono partiti proprio dai cristiani. Da qui è nata la teologia “nera”, dove l’idea centrale è che Dio è “nero”. È nata, poi, la black church, chiesa dove i predicatori, prevalentemente bianchi, parlavano di una salvezza come premio in cielo solo per coloro che ubbidivano ai padroni qui in terra. Questa era una ragione che alienava dalla realtà.

C’è comunque un lato gioioso del cristianesimo africano che è espresso nei cori trascinanti, nelle danze, nella vita come chiesa domestica, come famiglia. In Africa, sta nascendo una terza chiesa che si affianca a quella occidentale e orientale del passato, una chiesa che deve fare i conti con quelle pentecostali. C’è molto cammino da fare, ma c’è una novità promettente: la Sacra Scrittura viene letta con autenticità e immediatezza. È probabile che il vecchio mondo cristiano debba dare priorità alle voci del sud e alle loro interpretazioni della Bibbia. L’Asia è un continente complesso dal punto di vista religioso, culturale e socio-politico. Le grandi religioni sono nate in Asia e il cristianesimo ha fatto fatica a penetrare, diversamente da quanto successo in America latina, in Africa e in altre zone dove non c’erano grandi religioni. L’Asia è il continente più religioso e il meno cristiano: lì, il cristianesimo non è penetrato come in America latina. Per questo, l’Asia è il luogo di una grande sfida. In Asia, come in America latina e in Africa, si è sviluppata la teologia della liberazione. Tra questi tre continenti c’è un comune denominatore: la sofferenza, il bisogno di liberazione. In Asia, è sorta la teologia planetaria, come liberazione integrale dell’uomo, della terra, di Dio. Non solo liberazione “da”, ma “per”: per un uomo che diventi persona, per una terra sanata che ritorni a essere madre, per Dio che sia padre e madre di tutti gli esseri umani. La base quindi della religiosità asiatica è la liberazione, e non la fede in un Dio personale. Questo è il punto di contatto con le altre religioni asiatiche: non la cristologia, non l’ecclesiologia, ma la soteriologia. Il cristianesimo si muove verso il sud del mondo. Anzi, la direzione sembra capovolta: sembra che nella chiesa spiri un vento dal sud. Stiamo vivendo un cambiamento epocale, ma di grazia. Con la stessa elezione di papa Francesco, nel 2013, il primo successore di Pietro che viene dal sud del mondo, le periferie del pianeta sono apparse nel cuore di Roma, e con il papa sono giunte le voci critiche del sud.

Il papa ha parlato all’Onu, nel 2015, della cultura dello scarto che ha prodotto inequità sociale ed economica, della crisi climatica, dei diritti umani delle persone vittime di questo cambiamento e del diritto dell’ambiente: temi ripresi nelle sue encicliche. Papa Francesco parla di una metamorfosi di stile nella vita, di gioia della fede, di rivoluzione della tenerezza di Dio iniziata con l’incarnazione, di misericordia, di ritorno al popolo di Dio, di una chiesa che deve promuovere il dialogo fra credenti e non. Il primo stile è “ascoltare” la realtà con gli occhi, cioè partire dal vissuto e dare priorità alle esperienze della vita, accogliere e valorizzare gli atti di fede di chiunque. Poi, l’ospitalità, in particolare quella verso l’”altro”: l’ospitalità indica l’accesso all’intimità di Dio, rende fruttuose le tensioni tra gli uni e gli altri, tra individuo e collettività. È la stessa ospitalità presente senza misure in Gesù Cristo: la sua forza evangelizzatrice sta nella tenerezza dell’accoglienza. Per Charles de Foucauld, Cristo è il primo evangelizzatore: il primo passo per evangelizzare è avere Gesù dentro il cuore. Papa Francesco dice che lo stile di Dio è vicinanza, compassione, tenerezza.

Fiorella Mago

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