"Ha sete di te l’anima mia". Nella santa assemblea per vivere davvero

Nella santa assemblea in cui ci riuniamo, non ci stiamo ritagliando un momento per fare visita a Gesù, ma siamo lì per vivere davvero

"Ha sete di te l’anima mia". Nella santa assemblea per vivere davvero

Nel corso della sua vita terrena, Gesù ha incontrato una schiera di ciechi ai quali frequentemente ha fatto la grazia di restituire la vista. Sono molti gli episodi evangelici che lo riferiscono e, sempre, in ciò che noi chiamiamo un po’ superficialmente “miracoli”, il Signore ridonava la luce a chi non vedeva per colpire, per scuotere, per manifestare una tremenda e nascosta cecità dell’uomo. Il mondo – dice Giovanni – non accoglie il Verbo, preferisce le tenebre. Quei prodigi narrati dagli evangelisti mostravano che “la luce del mondo”, lui, Gesù di Nazareth, illuminava la cecità del corpo e abbagliava contemporaneamente la cecità del mondo: di un mondo che, da sempre, non desidera essere disturbato e ritiene di poter costruire con le proprie mani la felicità. Cieco è Pietro, quando non vuole sentir parlare di un Maestro sconfitto e crocifisso. Cieco è Geremia, chiamato a profetizzare speranza mentre il popolo vive esiliato a Babilonia. Sono ciechi: si ribellano. Umanamente, esistenzialmente, con la nostra carne, non possiamo che ribellarci, posto che il cristianesimo non va ridotto a candeline e bacetti a sant’Antonio o alla Madre di Dio, pur con l’amore immenso che abbiamo per lei e per i santi. Gli occhi del nostro cuore devono farci comprendere che la speranza di una liberazione non è la ricerca di un equivoco “benessere”. La pace vera è la pace di ciò che ci dà solidità mentre tutto intorno è terrore, è assalto, è privazione, è cupezza, è scacco, e questo dono ci è dato unicamente attraverso il Figlio di Dio crocifisso. L’esilio a Babilonia è un’ombra di quella croce, come tutti gli esìli del mondo. I nostri esìli sono ombra che guarda lì; ombra nel senso di anticipo, di mistero nascosto. «Mi hai sedotto, Signore – grida Geremia – e mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Quando parlo, devo gridare, devo urlare: “Violenza! Oppressione!”. Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9). Mi hai quasi violentato – pensa – facendomi profeta di speranza. Ma di quale speranza vuoi che parli a Israele? Mi deridono, devo gridare... La tua speranza, Signore, è causa di vergogna, di scherno. È una ribellione, quella di Geremia. La stessa di Pietro. È la nostra ribellione: non può essere la croce la via! Eppure, «non conformatevi – scrive Paolo ai Romani – a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto». Lo sentiva che Gesù era venuto ad annunciare lo scandalo. È necessario però evitare anche la deduzione “cristianesimo uguale dolore, mestizia, testa bassa, giogo”, il pietismo gobbuto del fedele che ostenta il suo portare la croce. Dobbiamo vivere degnamente, guardare virilmente le braccia spalancate del Signore, quel soffio che esce dalla sua bocca, quel cuore lacerato: hanno in odio il dolore, la morte, la sofferenza. Dio ha trasfigurato i fori della creazione che portava nelle mani, nei piedi, nel petto; è la creazione infatti a essere crocifissa, è il mondo a essere crocifisso, è la carne a essere crocifissa. In mille modi, tanto che l’elenco è interminabile, quasi angosciante. Lasciandosi trapassare dai fori, dalle piaghe del creato, il Signore ha fatto scorrere dentro di essi la vita divina e ha trasformato le ferite in una fontana vivace, che risana tutto. Il Padre illumini gli occhi del nostro cuore perché comprendiamo che attraverso quei fori, quella fontana traboccante, si giunge alla speranza beata. Per questo mangiamo e beviamo alla mistica mensa. «O Dio, tu sei il mio Dio – canta così il salmista – dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua. Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria. Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode». Nella santa assemblea in cui ci riuniamo, a volte sparuti, piccolini nell’immensità delle nostre cattedrali, non ci stiamo ritagliando un momento per fare visita a Gesù, ma siamo lì per vivere davvero.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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