Il vescovo Claudio riflette sul caso di don Luca Favarin. L’importanza di camminare insieme

L’intervista. Il vescovo Claudio riflette sulla vicenda di don Luca Favarin dopo la sua scelta di lasciare il ministero ordinato e torna sui fatti e sulle ricostruzioni degli ultimi giorni

Il vescovo Claudio riflette sul caso di don Luca Favarin. L’importanza di camminare insieme

È un Natale dal retrogusto amaro per la Chiesa di Padova. «Avremmo voluto vivere i giorni di Avvento e Natale con altro animo – scriveva il vicario generale mons. Giuliano Zatti la scorsa settimana ai preti – invece il tempo che passa umanamente non ci porta alcun regalo di Natale o di fine anno, se non l’ennesimo motivo di fatica». Nei giorni scorsi televisioni, giornali e social media hanno riportato con enfasi la vicenda che riguarda don Luca Favarin, la sua decisione di uscire dal ministero ordinato, le ragioni e i passaggi che il Codice di diritto canonico prevede in casi come questo. Fin dal principio, da quel post sulla sua pagina Facebook che don Luca ha pubblicato nel pomeriggio di mercoledì 14 dicembre, si è compreso come la situazione fosse complessa, le sfaccettature molteplici. Il rischio di una facile banalizzazione da parte dei media – e soprattutto dei social – si è poi purtroppo materializzato, in una serie di ricostruzioni, commenti e prese di posizioni, provenienti da molte parti, che non rendono onore alla verità. In quell’intervento di don Luca, che peraltro seguiva di poche ore un suo incontro personale con il vescovo Claudio Cipolla, in cui aveva presentato la richiesta di essere dispensato dal ministero ordinato, si faceva riferimento alle attività messe in campo per l’accoglienza dei migranti, su cui negli anni c’è stato uno scambio di vedute con la Diocesi, che non aveva prodotto una convergenza (e non si può certo pensare possa essere questa la ragione per abbandonare l’abito talare). Ma si parlava anche del magistero della Chiesa su argomenti come i diritti delle persone omosessuali e il fine vita, tematiche complesse che superano il livello della Chiesa locale, sulle quali tuttavia la Diocesi è da tempo attenta e attiva. Su questo nuovo passaggio doloroso mons. Claudio Cipolla sente ora la necessità di aggiungere alcune riflessioni, dopo tutto quanto è stato detto nei giorni scorsi.

Vescovo Claudio, leggendo articoli e interviste pubblicati in questi giorni, sembra che da tempo ci fosse un’avversione della Chiesa di Padova verso don Luca e le sue attività. È così?

«Nei confronti di don Luca non c’è mai stato alcun atteggiamento avverso, al contrario c’è sempre stato rispetto e apprezzamento per il suo impegno sociale e per l’attenzione dimostrata in tutti questi anni per le persone più povere e più fragili, attenzione che si aggiungerebbe alle tante altre opere promosse dalla Chiesa. Non c’è un contrasto sul merito, ma sul metodo dell’impegno sociale in capo a un presbitero».

Possiamo approfondire questo aspetto?

«Quando un prete agisce viene interpretato nella società come rappresentativo della Chiesa e per questo se intraprende attività commerciali o imprenditoriali necessita dell’autorizzazione dei superiori. Più volte e invano negli ultimi anni abbiamo chiesto a don Luca di condividere progettualità anche con gli organismi di comunione (consiglio pastorale diocesano, consiglio per la gestione economica, Caritas diocesana) e obiettivi. Ma su questo non c’è stata la disponibilità di don Luca e quindi la Diocesi non può sentirsi – seppur indirettamente – coinvolta nelle sue attività».

La Diocesi, in una nota, ha spiegato anche la diversità di vedute sullo stile da assumere nell’accoglienza ai migranti.

«In quest’ambito, don Luca, come ha spiegato lui stesso, ha compiuto scelte sulla base di principi gestionali difformi rispetto a quelli fatti propri dalla Diocesi. Dopo notevoli riflessioni comunitarie, la Chiesa di Padova ha promosso fin dapprincipio le micro-accoglienze affidandosi a cooperative del territorio competenti in quest’ambito, senza porsi come ente gestore del servizio. Su questo, contrariamente, don Luca ha scelto di proseguire per la sua strada. Come pure quando ha dato vita a un’iniziativa rivolta ai minori senza un confronto previo. La Diocesi è da anni impegnata, sui vari fronti del sociale (dai disabili agli anziani, dai minori alle vittime di tratta…), attraverso enti e strutture, che hanno un’autonomia gestionale, ma con cui c’è una progettualità condivisa. Da sempre preferiamo procedere in modo ordinario, sostenendo, anche distribuendo le risorse che riceviamo, soggetti e strutture, che si occupano di accoglienza e di minori in una gestione umile e discreta e consolidata nel tempo».

Il problema quindi è che don Luca voleva fare il prete-imprenditore?

«Il problema non è dare vita ad attività imprenditoriali, circostanza prevista anche dal Codice di diritto canonico. Anche la Chiesa lo fa quando non trova altre vie per rispondere a una necessità emergente: se vogliamo, istituzioni significative e meritorie come l’Opsa e il Cuamm hanno profili di impresa e di autonomia, ma li esercitano con la trasparenza necessaria e in condivisione con la Diocesi. Nel confronto con don Luca invece è sempre stato chiaro che lui non sarebbe stato disponibile a derogare dai suoi criteri».

La situazione era così grave da spingere don Luca a rinunciare al ministero?

«Certo che no, don Luca avrebbe potuto continuare a essere prete, era solo necessaria la chiarezza di fondo, cioè che la Diocesi non è coinvolta nelle sue attività non per il loro contenuto ma per le modalità. Va poi distinto l’altro aspetto: don Luca ha presentato richiesta di essere esonerato dai compiti legati al ministero presbiterale e di avviare il procedimento di dispensa dal ministero ordinato, martedì 13 dicembre, da qui come diretta conseguenza il decreto di sospensione a divinis di sabato 17. È ovvio che una persona che non si riconosce più in una comunità e nelle sue idee non possa continuare a parlare e ad agire a nome di quella comunità. Di fronte alla decisione di don Luca, che riguarda la verifica del suo essere prete, l’orientamento della sua vita e le motivazioni profonde, non posso che accogliere con rispetto, senza nascondere il dolore per un prete che dopo 24 anni ha deciso di lasciare il sacerdozio».

Che cosa prova di fronte a fatti come questo?

«Ogni volta che accade io, i miei vicari e i nostri collaboratori ci interpelliamo, ci mettiamo in discussione, proviamo ad analizzare tutti i passaggi per comprendere dove possiamo semmai aver sbagliato. In questo caso però si è andati ben oltre. Penso alle persone che si sono scandalizzate leggendo questi fatti, penso a chi si interroga e anche a chi ha sofferto nel vedere trattata così la Chiesa. C’è chi ha manifestato solidarietà, chi anche si è fatto trarre in inganno dalle ricostruzioni lontane dalla realtà. Purtroppo, tutto questo non ci aiuta a costruire anzitutto tra di noi quella pace che come Diocesi ci siamo impegnati a custodire nella preghiera in questi mesi di fronte al conflitto in Ucraina e alle altre guerre nel mondo. Di fronte a questa situazione rimane la tristezza su cui invoco la serenità del Natale».

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