L'Eucaristia in tempo di virus, ma non solo. Don Bozza: "È la risposta a una chiamata"

Eucaristia senza popolo. È opportuno che i preti la celebrino in privato? Sollecitato da questa domanda, giunta in tempo di virus, don Giorgio Bozza – docente di teologia morale e parroco di Ronchi di Casalserugo – porta la sua esperienza: «Non è un privilegio»

L'Eucaristia in tempo di virus, ma non solo. Don Bozza: "È la risposta a una chiamata"

Tra le varie discussioni e riflessioni che si sono accese in questo periodo di digiuno eucaristico, ce n’è una che mi ha colpito: è opportuno che i preti celebrino l’eucaristia in privato, “senza il popolo”? Qualcuno è arrivato a scrivere che questa forma di celebrazione privata è un privilegio del prete: infatti, gli altri cristiani non possono celebrare e per essere in comunione con tutti i fedeli anche i preti dovrebbero vivere in prima persona il digiuno eucaristico. Anche essere genitori è un privilegio, ma nessun papà e nessuna mamma abbandonerebbero i propri figli per sentirsi in comunione con chi figli non ne ha o non può averne.

Sono diventato prete non per avere dei privilegi, non per insegnare teologia, non per guidare una comunità parrocchiale..., ma per celebrare l’eucaristia: questo è il mio “lavoro”. Tutti gli altri servizi che mi sono richiesti sono contenuti e trovano senso in questo sacramento. Dispiace e rattrista che non ci siano persone a celebrare con me l’eucaristia, ma davanti a quel crocifisso insieme a me ci sono tutti i miei parrocchiani vivi e morti: come ogni cristiano, credo nella comunione dei santi, per questo non mi sento solo quando celebro.

L’eucaristia, però, non è abitata solo dalla presenza di tante persone, ma anche da tutto il creato. Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco dedica i numeri 233-237 al rapporto tra eucaristia e realtà create. In quel pezzo di pane e in quel sorso di vino il creato «trova la sua maggiore elevazione... Dio stesso, fatto uomo, arriva a farsi mangiare dalla sua creatura... e volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia». Più che un privilegiato, queste parole del papa mi fanno venire le vertigini: siamo strumenti attraverso i quali Dio continuamente compie il miracolo.

Le stesse mani dell’uomo, che in questi tempi di Coronavirus si consumano per curare la sofferenza dell’umanità, hanno anche il “potere” di trasformare il «frutto della terra e del lavoro dell’uomo» nel corpo di Cristo. In questo sacramento tutto il cosmo «unito al Figlio incarnato, presente nell’eucaristia, rende grazie a Dio» (236). Ogni nostra attività, ogni nostro lavoro, ogni arte trova nell’eucaristia il suo compimento, il suo senso, il suo significato: nessun frammento di creato andrà perduto!

Quello che celebriamo sull’altare è un atto di amore verso Dio, l’uomo e la natura che viene «assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale».

Quando celebro la messa da solo, con i suoni della natura che riempiono la cappellina, sento tutta la forza delle parole di san Giovanni Paolo II: «Anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, sull’altare del mondo». Gesù Cristo si offre a Dio Padre e in questo misterioso scambio sono coinvolte tutte le persone che, come parroco, porto dentro di me. Questo non è un privilegio, ma la risposta a una chiamata.

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