L’Eucaristia, “oltre” il raccogliersi in assemblea. Nel rito agisce il Salvatore

L’Eucaristia, che è “oltre” il raccogliersi in assemblea, procura... una ferita. E ciò rende i riti non il susseguirsi di “parti”

L’Eucaristia, “oltre” il raccogliersi in assemblea. Nel rito agisce il Salvatore

Amiamo molto definire l’Eucaristia nei termini di un raccogliersi, riunirsi, formare un’assemblea, percepirsi come comunità, volersi bene, mettersi insieme ad ascoltare il Signore, ma la sua logica originaria non è che si entri in un luogo per far circolare un pensiero. Il popolo d’Israele mai è rimasto chiuso a pensare e ascoltare per poi andare. Sua vocazione era camminare nel deserto. Gesù la riprende («non portate borsa, né sacca, né sandali»), tanto che la metafora dell’arameo errante è la cifra dell’intera vita cristiana. Tutte le azioni del Risorto vengono compiute sfondando lo spazio. Perfino quando si fa presente nel Cenacolo entra a porte chiuse. E il riconoscimento più pieno avviene sulla strada per Emmaus, nel momento in cui Cleopa e l’amico, dopo la berakah (benedizione) sul pane, non possono più vederlo, perché a quel punto, quando i loro occhi vengono aperti, sono folgorati dalla “luce vera” che squarcia le pupille di Paolo. L’atto rituale corre verso Dio; non è il ripiegamento in un intimismo creatura-Creatore. Chi si pone in questi termini è statico, cade nell’idolatria, perché Dio è oltre il crocifisso che incensi. Il mistero della Chiesa, corpo di Cristo, è oltre la vicinanza rotondeggiante dei fratelli. Una cattiva teologia genera sempre una cattiva prassi pastorale. La liturgia non è un vapore disincarnato che suscita il desiderio di ascoltare ogni settimana uno zibaldone di istanze tra lo spirituale, il dogmatico e il moraleggiante. Il senso del celebra re i divini Misteri è che si possa esclamare, con l’impeto di Maria Maddalena che corre da Pietro: «Ho visto il Signore». L’opera di Dio è come la nube che guida il popolo santo nel deserto. È come la fiamma di un fuoco che attraversa la notte. L’opera di Dio è come la carne del Figlio dell’uomo che cammina sulle acque del mare di Tiberiade. Ogni azione che compiamo nella liturgia, essendo l’agire del Verbo immolato, sepolto, risorto e glorificato, è attraversata da una spada a doppio taglio, un pugnale che entra nella carne, ed è violento. Dobbiamo coprirci il volto quando siamo alla presenza di Dio. Mosè ha potuto fare tutto davanti al roveto ardente; una sola cosa Adonai gli ha comandato: togliti i sandali. L’Eucaristia non è un banale convenire di persone. Essa procura una ferita. Ciò che è dinanzi a me mi trapassa e sarà quel fuoco, quell’essere trapassati che renderà i riti non il susseguirsi di “parti”. L’arte di celebrare è la capacità di lasciarsi ferire e ferire con una spada a doppio taglio l’assemblea. Perché se vado a messa ad ascoltare la Parola del Signore e rinuncio ai piaceri del mondo è sequela e la sequela è abbandonare tutto: casa, campi, fratelli, sorelle, padre, madre. Sarebbe ipocrisia non mettere in conto il sangue, nella sequela di Cristo. Non c’è niente nella liturgia di “bello”, nel senso modesto dell’uso di questo vocabolo. L’Eucaristia è la manifestazione dell’“unica cosa necessaria” che oppone Marta a Maria. Perché in un istante avremo i capelli bianchi, e in un istante sentiremo la morsa del male, e in un istante vedremo la nostra esistenza compromessa, e in un istante il nostro corpo sarà calato nella tomba, nel trionfo dell’assoluto di chi rifiuta altri assoluti: la morte. La salvezza che il Signore ci dona è andata a toccare la radice del male fino nell’ultimo angolo dove si era annidato: il sepolcro, il mio, il nostro. Nell’atto di consegnarsi, uomo mortale, fattosi peccato, Gesù sprofonda dentro le spire della tenebra più densa, che lo avviluppa come fa un serpente con la preda. Lo stritola, lo schiaccia, lo divora, e quella lotta infernale in cui la debolezza è vittoria, la morte è vita, l’immolazione è eternità, quell’atto inenarrabile di salvezza il Signore lo rende cibo e bevanda, che noi mangiamo. Un frammento di pane è lui gloriosamente vincitore. Senza quel Pane e quel Vino, trionferebbe la morte. Se celebrando l’Eucaristia incenso il libro dei Santi Vangeli è per significare che non sto leggendo gli aforismi di Budda, i Pensée di Blaise Pascal, neanche Basilio Magno, o Giovanni Crisostomo, o Agostino, Ambrogio, Origene. Sto cantando il canto dello Sposo. Do all’atto umano del leggere una vocazione totalmente altra. E la “participatio activa et fructuosa” sarà la capacità di riconoscere oltre e dentro i segni e le parole del rito l’invisibile agire del Salvatore.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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