Liturgia. Il desiderio accende il rito, con il coraggio di riappropriarci di un atto sociale svuotato

Gesù non si impone al mondo: lo desidera, lo chiama a sé, con la soavità con la quale il santo padre Francesco ci ha gettati nel mare del sangue glorioso dei principi degli apostoli. Il magistero del papa sulla liturgia, firmato nella solennità dei santi Pietro e Paolo, non ci chiede né regole, né vie pastorali.

Liturgia. Il desiderio accende il rito, con il coraggio di riappropriarci di un atto sociale svuotato

Desiderio desideravi, pesa quasi più il titolo di tutto il resto. «Ho desiderato desiderando di grande desiderio». Non si riesce a tradurlo. È l’amore di Gesù. È la liturgia cristiana. Già il Movimento liturgico e la “sua” Sacrosanctum concilium proponevano una teologia dell’elemento necessario per una celebrazione che attingesse «all’infinità dell’essere dinanzi al reale, alle cose, all’anima», per dirla con Guardini. Con coraggiosa radicalità, lo riconoscevano nel corpo dell’uomo, che si muove nello spazio e nel tempo. Eppure ancora facciamo uno shampoo sulla testa dei bambini, senza immergere nessuno nella morte di Cristo; ancora strisciamo batuffoli di cotone, senza ungere-crismare il corpo dei cristiani con il fuoco dello Spirito; ancora leggiamo lunghe prediche per accogliere meglio Gesù “nel cuore’» senza sederci ai piedi del Maestro, perché lui – non altri – ci inviti al suntuoso banchetto dell’Agnello; ancora elenchiamo i nostri peccati, senza un tempo di fisica penitenza; ancora visitiamo malati senza toccare e ungere il loro corpo crocifisso; ancora applaudiamo ai neo ordinati senza il tremendum e apofatico silentium; ancora declamiamo predichette-preghiere augurali senza adombrare con la nube i nubendi... È necessario arrivare a costruire un dispositivo che creda alla coraggiosa riscoperta del rito come atto sociale basilare per l’uomo, alla gratuità liberante del gioco rituale, al suo nesso ineludibile con la fisicità e l’intelligenza dei sensi. Tenendo presenti i deficit applicativi del Libro-Messale, non ancora pienamente all’altezza delle nostre Chiese:

Il codice spaziale. Il corpo dei credenti è imbrigliato da didattici banchi da chiesa; le sacrestie sono una comoda prossimità all’altare, per evitare ogni introito; gli amboni non stanno nell’assemblea come il Cristo schiacciato dentro la folla; gli altari – descritti con l’ambigua definizione clericale di “presbiterio” – faticano a essere un recinto proteso verso il cosmo, capace di illuminare-evidenziare una roccia che è una mensa ed è alta, per attrarre verso colui che è “innalzato” e dare un orientamento alla preghiera; il ministro ordinato comincia timidamente a scendere tra il popolo, ma teme ancora tanto di “imbrattarsi dell’odore delle pecore” e preferisce la sede solitaria lassù.

Il codice temporale. Il tempo della liturgia è frastornato da una miriade di “controtempi”: il circulus anni Domini Nostri Iesu Christi è mescolato a un inenarrabile florilegio di Santi; le “giornate nazionali e mondiali” superano le cinquantaquattro Domeniche dell’anno, cosicché si giungono a celebrare anche due giornate per ogni domenica; il Dies Domini, giorno senza tramonto e festa primordiale dell’Oriens ex alto, sembra tramontato o surrogato; l’atto rituale è povero di kerygma pasquale; le celebrazioni dell’Eucaristia hanno accantonato l’eccedenza del gioco e della festa, piegate su tempi ritenuti “adeguati”, mentre durante la notte i giovani “fanno mattina” per il gusto di stare insieme...

Il codice musicale. Le scholæ cantorum sono smarrite in un’identità da “coretto”. Si cerca rifugio nell’antico patrimonio della Chiesa, che il clero disdegna e i laici ascoltano con curiosità, e, mentre vescovi e parroci perdono la pace perché «nessuno canta con questi canti» loro non cantano mai! Musicam sacram, nel 1967, preoccupata della partecipazione dei fedeli, investiva tutto dando il primato al canto dei dialoghi del celebrante con l’assemblea. Il nostro Libro-Messale arriva tardi e non trova rifugio che in una nobilissima cantillazione d’ispirazione gregoriana, senza saper creare delle parole-in-canto “di oggi”. Coerentemente con la rivelazione ebraico-cristiana, avvenuta per verba et signa, e con il mistero- dogma dell’incarnazione, il rito non può limitarsi a essere inteso come itinerario didattico-morale. Deve generare il senso interiore attraverso la realtà esteriore. Il “fare”, in questa prospettiva, canta allora l’elegia dei “santi segni” della croce e della mano che li traccia; dell’inginocchiarsi come dello stare in piedi; dell’incedere come del battersi il petto; dei gradini, del portale, dei ceri e dell’acqua; della fiamma e della cenere; dell’incenso e del calore della luce; del pane e del vino; dell’altare e dei suoi candidi lini; del calice e della patena; della benedizione; dello spazio; delle campane e del loro tempo.

don Gianandrea Di Donna
Direttore dell'Ufficio Diocesano per la Liturgia

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