Sinodo. In comunione fraterna. “La Chiesa e gli ambiti di vita: un legame costitutivo”

Secondo tema. Suor Francesca Fiorese riflette su “La Chiesa e gli ambiti di vita: un legame costitutivo”. «Per il cristiano ogni luogo è sacro, ma “come” viverlo?»

Sinodo. In comunione fraterna. “La Chiesa e gli ambiti di vita: un legame costitutivo”

Nella riflessione sul secondo tema sinodale, interviene questa settimana suor Francesca Fiorese, direttrice dell’ufficio diocesano di Pastorale sociale e del lavoro.

Da dove possiamo partire per “affrontare” questo tema?

«Dalla Chiesa, direi, quale popolo di Dio che dev’essere tale in tutti gli ambiti di vita, non solo nelle comunità parrocchiali. Credo che i cristiani debbano acquisire la consapevolezza di essere popolo di Dio, perché questo è il centro dell’essere Chiesa».

Chi è il “popolo di Dio”?

«“Popolo” è un concetto più ampio di “comunità” cristiana; essere popolo implica riconoscere la propria identità comune: Chiesa è laddove ci sono dei cristiani. Io, cristiano, sono Chiesa quando mi trovo in parrocchia ma anche quando vivo spazi e momenti della mia vita, quando sono in casa o al lavoro: il cristiano, se consapevole, può portare una trasformazione in tutti gli ambiti di vita quotidiana».

Come si coniugano i nostri abituali luoghi di vita con la fede?

«A volte pensiamo che, siccome siamo cristiani, “dobbiamo” frequentare la messa per vivere i sacramenti; questo è certamente vero, ma la fede deve soprattutto trasformare la nostra vita. Se così non avviene, non è vera fede cristiana. Si può dire, quindi, che non c’è una reale distinzione tra luoghi spirituali e luoghi mondani, per il cristiano tutto è sacro, lui per primo poiché ha ricevuto il battesimo e lo Spirito Santo».

Per il cristiano andare in chiesa, è andare alla sorgente...

«Certo, il cristiano va in chiesa perché sa che lì c’è il pozzo a cui attingere l’acqua, ma non è sacro solo il pozzo, bensì ogni luogo dove il cristiano porta da bere. Una madre che si prende cura della propria famiglia, per esempio, non è meno sacra, così come non lo è la professione, l’attività sportiva, l’assistenza a un malato. Ciò che veramente fa la differenza, è fare tutte queste cose in sincera comunione fraterna».

La sacralità così intesa può essere compresa anche da chi non si dice cristiano...

«Credo sia essenziale recuperare i valori, lasciando stare le etichette; il cristiano a volte vive una tensione tra simboli e ritualità che fanno parte della Chiesa e la fede vissuta negli ambienti di vita quotidiana. È necessario tornare alla sostanza perché a volte la forma, seppur importante, non si coniuga bene con la vita reale e non trasmette la bellezza dell’incontro con Cristo».

Cosa abbiamo imparato dal periodo pandemico?

«Purtroppo, la pandemia è stata vissuta senza la dimensione della risurrezione, le persone sono state toccate dal dramma della morte e dal non senso della malattia. Dobbiamo fermarci e aiutarci, provare a raccontarci le nostre esperienze personali, senza emettere giudizi su nessuno. Le comunità cristiane sono d’aiuto all’uomo se diventano luoghi di racconto vero, che lascia spazio alle differenze».

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