«Stiamo camminando». Don Nicola De Guio, fidei donum, racconta i primi passi di una Chiesa agli inizi

Etiopia. Don Nicola De Guio, fidei donum nel paese insieme a don Stefano Ferraretto e Elisabetta Corà, racconta i passi in una Chiesa agli inizi. Che ora sta facendo i conti con il Covid e con l'instabilità politica

«Stiamo camminando». Don Nicola De Guio, fidei donum, racconta i primi passi di una Chiesa agli inizi

“Eccomi, manda me”. Don Nicola De Guio, da gennaio 2019 missionario fidei donum in Etiopia insieme a don Stefano Ferraretto e alla laica Elisabetta Corà, sa bene cosa significa essere “inviato”. Ordinato nel 1997, è stato prima missionario in Ecuador, poi parroco dell’unità pastorale di Canove, Cesuna, Treschè Conca e infine, alla soglia dei 50 anni, di nuovo inviato in missione, questa volta in una terra in cui l’annuncio di Cristo è davvero il primo annuncio.

«È sì un secondo invio – ammette don Nicola De Guio – ma è soprattutto una conferma di un servizio missionario per conto di una Chiesa che si tende verso le Chiese sorelle». Rispetto all’Ecuador un altro continente, un’altra Chiesa, un altro modo di intendere la missione: «In Etiopia ci troviamo all’interno di una prefettura apostolica, ovvero una Chiesa agli inizi, nella fase germinale, in una zona di forte presenza musulmana e dove si trova la Chiesa ortodossa».

La missione è cominciata sì a inizio 2019, ma per i primi mesi i fidei donum padovani si sono concentrati sullo studio della lingua, destinando alla missione nei fine settimana. «Dall’inizio del 2020 – spiega don Nicola De Guio – risediamo nella comunità di Adaba. Qui ci siamo organizzati per impegnarci non solo in questa comunità, dove fino ad agosto c’era un altro missionario, don Giuseppe Ghirelli, della diocesi di Anagni-Alatri, ma anche verso altre realtà». Don Stefano Ferraretto, per esempio, aveva iniziato a seguire la comunità di Dodola, che si trova a 25 chilometri da Adaba, guidando il mercoledì un incontro sulla Parola e la domenica la messa. Don Nicola De Guio, invece, si era organizzato per visitare ogni due settimane la comunità di Kokossa, a 95 chilometri di distanza, dove è stato presente anche il vescovo Antonio Matiazzo, nonché la comunità di Nansebo, a 90 chilometri, dove erano presenti dei catecumeni. Piani per ora sospesi a causa della pandemia: «Abbiamo dovuto interrompere le attività e restare fermi ad Adaba, dove la comunità cristiana è composta quasi esclusivamente dai ragazzi di una casa-famiglia». Il tempo è trascorso tra pulizie, sistemazione degli spazi, attività di doposcuola con i ragazzi e intenso studio della lingua oromo, cercando al contempo di mantenere i contatti con le altre comunità tramite il telefono.

Oltre alla pandemia, a complicare i piani dei missionari il clima pesante che si respira nel paese: il 29 giugno scorso, infatti, il cantautore di etnia oromo, Hachalu Hundessa, molto attivo politicamente, è stato ucciso in circostanze misteriose. Un assassinio che ha fatto salire la tensione tra le diverse etnie oromo e il governo, guidato dal primo ministro Abiy, vincitore nel 2019 del premio Nobel. «Noi, dalla missione di Adaba – racconta don Nicola De Guio – oltre a cercare di seguire queste vicende che interessano il paese e le nostre zone, abbiamo avvertito la gravità degli eventi anche perché alcune case vicine alla missione sono state attaccate e distrutte; a Dodola come ad Adaba, oltre venti persone sono state uccise».

Si attende il ritorno alla normalità per poter tornare a questo lavoro di primissima evangelizzazione: «Muovere i primi passi – racconta don De Guio – vuol dire cercare di condividere la fede a partire da ciò che i cristiani lì presenti capiscono, dentro una lingua e una cultura diversa. Significa incontrare le persone e confrontarsi: è un richiamo diretto a ciò che ci viene dato dal Vangelo e ciò che la fede in Cristo rappresenta per noi, senza dare nulla per scontato. Questo ti spoglia di tanti modi di pensare e anche di vivere la fede, modi che abbiamo conosciuto qui a Padova, che ci hanno educato e ci hanno fatto crescere». Certo, manca l’esperienza pregressa della fede in Cristo, ma non si semina sul vuoto: «Ci avviciniamo in punta di piedi, per condividere quello che la fede ci dice dentro una cultura». Inculturazione: è questa la parola chiave perché la Parola di Cristo possa camminare davvero con i piedi di un nuovo popolo. «C’è tanta strada da fare, dentro la lingua e dentro la storia delle comunità, ma anche dentro la storia religiosa del paese, dalle religioni tradizionali all’Islam. È una bella sfida! Condividere quello che hai può essere facile, condividere l’esperienza di fede che ti viene dagli altri può essere diverso rispetto alle aspettative. Stiamo camminando e, insieme al nostro vescovo, stiamo cercando di capire quali passi fare».

Una missione in fase "di studio"

Una missione in fase di “studio”, tra i blocchi della pandemia e i primi passi in una terra nuova: «Qui la Chiesa è giovane, i cristiani sono agli inizi. Cerchiamo di capire cosa la nostra stessa fede ci stia dicendo, anche da un punto di vista umano».

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