America centrale: corridoio di tensioni incrociate e laboratorio di speranza

Dal periodo "caldo" degli anni 70 e 80 del secolo scorso alla situazione critica odierna: il Centroamerica si conferma "un'area complessa e delicata", spiega Massimo De Giuseppe, docente di Storia contemporanea all’università Iulm di Milano, che racconta le tre emergenze comuni ai Paesi latinoamericani - ambiente, migranti, fragilità politica - e i tanti segni di speranza.

America centrale: corridoio di tensioni incrociate e laboratorio di speranza

Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso fu una delle zone del mondo più “calde”. L’America Centrale si caratterizzò, allora, per feroci dittature, per sanguinose guerre civili, per il tentativo di esportare la rivoluzione cubana (proprio in questi giorni si è ricordato il 40° anniversario della rivoluzione sandinista in Nicaragua), per il conseguente interventismo statunitense nel custodire il proprio “giardino di casa”. Dopo alcuni decenni, il Centroamerica è di nuovo rovente, anche se quei tempi sono comunque lontani. I Paesi si svuotano (soprattutto Honduras ed El Salvador) e le carovane di migranti si ingrossano. Il Guatemala rischia di diventare nuova “frontiera nord” per i migranti centroamericani, dopo l’accordo con gli Stati Uniti. In Honduras la gente è in piazza da mesi contro il presidente Hernández. Il Nicaragua è avvitato in una crisi senza fine. Perfino la tradizionale isola felice, il Costa Rica, ha vissuto manifestazioni e qualche scontro di piazza. Situazioni, certo, molto diverse tra loro. “Ma un unico filo conduttore lo si può trovare – spiega al Sir Massimo De Giuseppe, docente di Storia contemporanea all’università Iulm di Milano ed esperto di questioni latinoamericane -. L’America Centrale si conferma un’area complessa e delicata, diventa un corridoio di tensioni incrociate, schiacciato a nord dalla politica di Trump e dal ruolo sempre complesso del Messico, mentre a sud c’è la crisi venezuelana”.

Come si manifesta questa crisi?

Ci sono alcuni dati storici, che derivano dall’eredità della Guerra fredda, pensiamo al fatto che 40 anni fa l’El Salvador era il terzo Paese al mondo per aiuti militari Usa dopo Israele ed Egitto. Narcotraffico e violenza sono caratteristiche tradizionali di questi territori. A tale situazione aggiungono tre questioni, molto intrecciate tra loro.

Quali?

Una è l’emergenza ambientale, la seconda è l’emergenza migratoria, la terza la perdurante fragilità delle istituzioni politiche. Nel momento in cui Trump estremizza e generalizza la situazione dei migranti, non aiuta a fare chiarezza. In questo momento i migranti messicani, al di là della propaganda del Presidente Usa, sono calati. La gran parte di chi chiede asilo negli Usa è centroamericana. Si calcola che il 35% degli honduregni sia fuori dal Paese, la percentuale di salvadoregni è di poco inferiore. Restando all’Honduras, è un Paese nel caos, primo al mondo per tasso di violenza criminale verso la popolazione civile. E anche qui c’è il problema della violenza ambientale, pochi giorni fa è stata uccisa un’altra attivista. In generale, tutta l’America Centrale è una regione ad altissima biodiversità, pensiamo al Petén in Guatemala o all’Olancho in Honduras. E c’è il gravissimo problema delle miniere a cielo aperto.

Tornando all’emergenza migranti. Secondo l’accordo firmato con gli Usa, il Guatemala diventerà “terzo Paese sicuro”, nel quale i richiedenti asilo potrebbero attendere la risposta alla loro richiesta. Cosa ne pensa?

Pur con le debite differenze, gli Usa stanno cercando di fare del Guatemala quello che l’Europa sta facendo con la Libia, o la Turchia. In realtà, in quel Paese c’è un impianto statuale fragilissimo. Inoltre, la frontiera tra Guatemala e Messico, al di dà del recente intervento della Guardia nazionale, è difficilmente “sigillabile”.

Intanto, la linea dura del Messico, non rischia di spostare comunque il problema a sud?

Il Messico, rispetto all’immigrazione, per anni ha fatto finta di nulla. Ora è un po’ “schiacciato”, con gli Usa c’è un rapporto sui generis, pur con idee diverse López Obrador e Trump hanno in comune alcuni tratti populisti.

Questo, per l’America Centrale, è anche un anno di elezioni presidenziali. Si è votato a Panama, nell’El Salvador, e in Guatemala con il ballottaggio dell’11 agosto. Bisogna aspettarsi qualche cambiamento?

Per quanto riguarda il Guatemala non mi pare ci sia questa possibilità. Nel Paese continua a essere centrale il ruolo dell’esercito. Dal nuovo presidente Alejandro Giammattei non mi pare che ci si possa aspettare una discontinuità, ma altrettanto si sarebbe potuto dire della sua concorrente Sandra Torres. In El Salvador le cose sono diverse. Si tratta di un Paese più dinamico, dove per molto tempo ha funzionato un sistema bipartitico. Ora è stato eletto Nayib Bukele, alternativo ai due partiti tradizionali di sinistra e destra, è figlio della “nuova politica”. Si è insediato da poco, è ancora un’incognita.

Il Nicaragua è un caso a parte, in questo scenario…

Sì, in questo momento c’è una stasi, non sappiamo se preluda a una nuova tempesta. Le opposizioni a Ortega sono frammentate, anche se non come in Venezuela. Resta, comunque, il Paese più povero della regione.

Intanto la protesta delle piazze ha contagiato perfino la Costa Rica, come mai?

E’ vero, è sempre stata considerata la Svizzera dell’America Latina. Qualche segnale c’era stato. La situazione è delicata, ma non deteriorata. Resta, per esempio, il Paese più attento alla necessità di una presenza multilaterale dell’Organizzazione degli Stati americani.

I problemi sono tanti, ma in molti Paesi, a cominciare dall’Honduras, la gente scende in piazza. E’ un segno di speranza?

Sì, c’è un grande dinamismo e capacità di mobilitazione, lo vedo soprattutto sul fronte ambientale. E la novità è data da un grande attivismo femminile. Importante la voce delle radio libere, spesso di matrice ecclesiale.

Ma è difficile che le cose cambino senza un autentico processo di ridistribuzione e sviluppo. Bisognerebbe pensare a una sorta di Piano Marshall da parte degli Usa, nel momento in cui chiudono le frontiere.

E il ruolo della Chiesa? Papa Francesco ha dedicato molta attenzione a quest’area, basti pensare alla recente Gmg di Panama e alla scelta di alcuni cardinali centroamericani.

Sì, è un’attenzione forte, coerente con la Laudato Si’. Ma è importante soprattutto ricostituire un tessuto forte a livello comunitario, nel momento in cui la società è in forte crisi.

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Fonte: Sir