Brasile, “in favela la fame e la povertà fanno più paura del virus”

A parlare è Barbara Olivi, fondatrice della onlus "Il sorriso dei miei bimbi", che da 20 anni lavora in una delle favelas più grandi del mondo. “L’acqua non è potabile, lo stato ha abbandonato la popolazione, migliaia di persone hanno perso il lavoro. La nostra fortuna? Vivere in Rocinha, una mamma che aiuta tutti”

Brasile, “in favela la fame e la povertà fanno più paura del virus”

“Siamo stanchi. Alla povertà, alla violenza, alla corruzione si è aggiunta anche la pandemia. Per resistere serve essere supereroi: esattamente quello che sono gli uomini e le donne brasiliani”. Barbara Olivi è la fondatrice della onlus “Il sorriso dei miei bimbi”. Reggiana d’origine, da 20 anni vive in Rocinha, una delle 1068 favelas di Rio, una delle più grandi al mondo con i suoi oltre 200 mila abitanti (non esistono numeri ufficiali).

L’emergenza sanitaria è arrivata nella favela arroccata sulle pendici della montagna Dos Irmãos (Due fratelli) – quella a due punte sullo sfondo di tutte le cartoline di Rio –, a due passi dalla famosissima spiaggia di Ipanema, in un momento complesso: da dicembre l’acqua corrente è inquinata, c’è una contaminazione tra bacino idrico e fogne della città. “È facile immaginare cosa significhi affrontare una pandemia da una zona in cui l’acqua corrente si mescola con i liquami. Personalmente, ho cominciato a preoccuparmi presto, perché seguivo l’Italia. Ho chiesto alla mia squadra di prestare la massima attenzione e, subito, abbiamo cominciato a sensibilizzare la popolazione sull’importanza di lavarsi le mani e di mantenere l’igiene personale. All’inizio mi prendevano in giro, pensavano stessi esagerando, che fosse il solito melodramma all’italiana. Si sono dovuti ricredere. E – per inciso – la situazione dell’acqua ancora non si è risolta: c’è chi ha ricominciato a bere l’acqua corrente, ma è troppo rischioso. Si continuano a sentire boati, con che garanzie possiamo tornare a limitarci a usare un filtro?”.

“Dopo un attimo di sbandamento, abbiamo provato a riorganizzarci: abbiamo cominciato a distribuire sapone liquido – ma è ovvio che, se manca l’acqua, non serva a molto –, il gel igienizzante era introvabile, la classe alta aveva già fatto man bassa”. A metà marzo il governatore di Rio Wilson José Witzel ha emanato un decreto per chiudere tutto, “scelta che ci ha decisamente stupito. Possibile che un fedele di Bolsonaro, un uomo abituato all’uso della violenza, avesse preso una misura tanto lungimirante? Tutto si è chiarito a giugno, quando è stato arrestato per corruzione, per appropriazione indebita dei fondi legati alla lotta al coronavirus. È in corso un procedimento di impeachment”. Lo stato, spiega Olivi, è completamente assente: “Lo stato non esiste, a lui interessa solo accaparrarsi soldi pubblici. Intanto sono già morti 87 mila brasiliani, cifra probabilmente sottostimata, visto che le informazioni fanno molta fatica a passare. È uno sfacelo”. Di fronte a numeri impressionanti (si parla di 40/45 mila contatti al giorno), il presidente Bolsonaro – che, non dimentichiamolo, dopo avere negato la pericolosità del virus è stato contagiato – ha deciso di riaprire, gradualmente, tutto. “Per una settimana alla fine di marzo si è parlato di lockdown, poi però Bolsonaro si è messo ad andare in giro senza mascherina, esempio che tutti hanno seguito, con i risultati che conosciamo. A Rio in questi giorni la curva è in lieve flessione, mentre continua a salire in Amazzonia. Così, ogni giorno assistiamo ad assembramenti: fuori da bar e locali, mentre scuole, cinema e spiagge sono ancora chiusi e i concerti vietati.

La onlus conta su un’équipe di 26 persone, tra part time e full time: “Molti di loro si sono ammalati, fortunatamente nessuno ha avuto bisogno di ricovero. La mia priorità è che tutti mantengano il lavoro. Certo si lavora meno, chi può lavora in smartworking, come le nostre psicologhe, che abitano a Copacabana: mettersi tutti i giorni sui mezzi pubblici non è sicuro”. In Rocinha tutto è cambiato, anche i progetti ventennali del Sorriso dei miei bimbi: la scuola materna (che segue 80 bambini tra i 2 e i 6 anni), il doposcuola (80 ragazzi tra i 7 e i 15 anni), una classe di 8-10 adulti per l’alfabetizzazione, un Garagem das letras attorno al quale orbitano 150 tra bambini e adulti. Rinnovati, proseguono tutti. “Apriamo l’escolinha (la scuola materna, ndr) due volta alla settimana, prepariamo i compiti per i bambini e i kit per realizzare qualche lavoretto. Inseriamo anche una ‘carezza’: le bolle di sapone, un pupazzino. I genitori vengono a prendere tutto. Apriamo anche i venerdì, confezioniamo altri lavoretti e li consegniamo alle famiglie con le istruzioni e la merenda”.

Poi c’è il doposcuola, che ha cominciato a funzionare a rotazione, frequentato da ragazzi che hanno ottenuto borse di studio in scuole private. “Noi, per comunicare con le famiglie, usiamo molto Facebook, perché è facile che le famiglie abbiamo un cellulare. Le scuole private, invece, assegnano i compiti da svolgere sui computer, e qui quasi nessuno li ha. Così vengono da noi: abbiamo due stanze, in ogni stanza ci sta un ragazzo. L’insegnante, a distanza, continua a studiare con loro. Qui ricevono anche la merenda”. Il passaggio della merenda è cruciale: in un’area in cui spesso l’alimentazione non è sana, poter mangiare un frutto o uno spuntino salutare non è un aspetto trascurabile. È proprio per questo che la onlus da anni porta avanti anche un progetto di educazione alimentare.

Con l’emergenza sanitaria anche il Sorriso dei miei bimbi ha cominciato a distribuire pacchi alimentari: 500 sono già stati consegnati, arrivano a pesare sino a 25 chili l’uno. In ogni pacco anche i principali prodotti per l’igiene (pannoloni, assorbenti, sapone inclusi): “Le persone, più che paura del virus, hanno fame. Una fame nera. Temono di non riuscire a sopravvivere. In troppi hanno perso il lavoro”. L’emergenza è quella delle donne delle favelas che lavorano come domestiche nelle famiglie borghesi: sono state tutte lasciate a casa da un giorno all’altro. E come loro anche camerieri, cuochi, muratori, tutta la manodopera a basso costo che popola le favelas. “Queste donne sono venute da noi e ci hanno chiesto aiuto, non sanno più come sfamare i figli, loro stesse non sanno più che fare. Sono orgogliose del loro lavoro: l’inattività, chiuse in case brutte e scomode, senza distrazioni, con i figli e il marito. Manca la routine, il piacere del piccolo guadagno. Anche qui, come in Italia, sono aumentati i casi di violenza domestica: conosciamo donne che sono letteralmente scappate di casa”.

“La nostra fortuna – continua Olivi – è vivere in Rocinha, una grande mamma che aiuta tutti. Le azioni di solidarietà si moltiplicano, chi può aiuta, tutti cercano di rendersi utili. Il nostro compito è quello di difendere la dignità delle persone, non sarà una pandemia a fermarci. Ci sono donne che stanno tornando al lavoro e ci hanno subito chiesto di essere tolte dalle nostre liste, preferiscono che il loro pacco vada a qualcuno più in difficoltà. Io insisto perché rimangano con noi per monitorarle e poi perché, se ci fosse un nuovo lockdown, forse si vergognerebbero troppo per chiedere ancora aiuto, e non voglio che accada”.

Come detto, la onlus ha già distribuito 500 pacchi ed entro l’anno conta di consegnarne altri 250. Tutti gli stipendi dell’équipe sono assicurati almeno sino a dicembre: “In questi mesi ci ha aiutato tanto la comunità italiana di Rio, il viceconsole, i turisti, le persone che ci sostengono dall’Italia. Temo che, per noi, la crisi arriverà l’anno prossimo, perché non avremo più turismo, per noi la maggior fonte di contatto e raccolta fondi. Sappiamo anche che molti dei nostri progetti dovranno cambiare: la pandemia ha fatto emergere con forza il problema dell’analfabetismo. Implementeremo anche la nostra attività di supporto psicologico, che già in questi mesi si è intensificata”.

Ambra Notari

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)