Cile, una nuova Costituzione? Un’occasione storica per il popolo Mapuche

Il 25 ottobre il Cile voterà per riscrivere la Carta che risale alla dittatura di Pinochet e per il popolo indigeno più importante del paese è un’opportunità per ottenere il riconoscimento della propria cultura e il diritto di amministrare le terre ancestrali

Cile, una nuova Costituzione? Un’occasione storica per il popolo Mapuche

Tutti i governi che ci sono stati, di destra e di sinistra, hanno sempre anteposto l’interesse economico e lo sfruttamento delle terre alla tutela dei popoli originari. Questo referendum è per noi indigeni Mapuche un’occasione molto importante”. Onesima Lienqueo parla al telefono con la voce roca: qualche settimana fa si è ammalata di Covid-19 e solo ora sta iniziando a sentirsi meglio. Si trova nella sua casa a Txaitxaiko, nome originario della cittadina oggi conosciuta come Nueva Imperial, nel sud del Cile: la regione è quella dell’Araucania, una delle più povere del paese, famosa per essere la “zona rossa” della lotta degli indigeni Mapuche, prima contro i colonizzatori spagnoli, e poi contro le truppe del nuovo Cile indipendente. Le ferite sono ancora aperte: negli anni questo popolo ha dovuto sopportare discriminazioni, razzismo, conversioni forzate, violenze, omicidi. E oggi, mentre il Paese si avvicina alla storica data del 25 ottobre, giorno del referendum per rivedere la Costituzione ereditata dalla dittatura di Augusto Pinochet, gli indigeni Mapuche sperano di ottenere il riconoscimento della loro cultura e il diritto di amministrare le loro terre ancestrali.

“In Cile c’è molta tensione e una sfiducia generalizzata verso la classe politica, che non è riuscita a intercettare le richieste del popolo – racconta Onesima –. Dietro al referendum si stanno muovendo tanti interessi politici ed economici. Quello che chiediamo noi Mapuche è un riconoscimento costituzionale, che assicuri la conservazione della nostra cultura in tutti i suoi aspetti: non basta riconoscere l’esistenza dei popoli originari, chiediamo anche che si riconosca l’espropriazione territoriale attuata dallo stato cileno e che si riconsegnino le terre ancestrali ai popoli indigeni a cui appartenevano. Questo comporta anche il riconoscimento della nostra organizzazione, delle nostre istituzioni tradizionali, della nostra lingua, della nostra spiritualità e del nostro modo di vivere”.

I Mapuche, letteralmente “gente della terra” (da “mapu”, terra, e “che”, gente), sono il popolo indigeno più numeroso del Sud America: in totale sono circa due milioni, di cui la maggior parte abita nel centro e nel sud del Cile, in particolare nella regione dell’Araucania. La questione Mapuche risale ai tempi della colonizzazione, un conflitto secolare basato su due visioni del mondo diametralmente opposte: quella europea legata all’idea di progresso, a una concezione del tempo lineare e fondata sulla proprietà privata; e quella Mapuche che pensa il tempo in maniera circolare e vede come un abominio la proprietà privata della terra. Il centro della spiritualità Mapuche è la natura: la terra è sacra ed è lì che vivono gli antenati. È dunque inconcepibile che qualcuno recinti un terreno e ci metta sopra un cartello con su scritto “proprietà privata”, perché questo significa separare la persona dai suoi predecessori e dalle terre ancestrali a cui appartiene.

“Lo stato cileno ha sempre deciso per conto dei Mapuche e ha sempre salvaguardato gli interessi di chi viene da fuori per sfruttare il nostro territorio – spiega Onesima –. I politici hanno agito in modo molto paternalista con i popoli originari e ora, con il referendum, hanno paura di cedere una parte del loro potere, lasciando finalmente ai Mapuche la possibilità di amministrare le loro terre. L’interesse economico ha sempre prevalso, in particolare quello legato alle materie prime e alle risorse naturali: le grandi imprese forestali hanno tagliato i nostri boschi, le idroelettriche hanno deviato il corso dei fiumi e li hanno seccati, le minerarie hanno devastato il paesaggio. Questo è senza dubbio il modello economico che predomina in Sud America, e così avviene anche nel nostro territorio. Si tratta di una violenza storica, sistematica, perpetrata da centinaia di anni”.

Onesima è una psicopedagogista e lavora per supportare i bambini vittime di violenza nel contesto della militarizzazione del territorio Mapuche, soprattutto nella regione dell’Araucania. Nel 2016 ha fondato la Rete per la difesa dell’infanzia Mapuche, associazione nata per dare visibilità al problema della violenza e per combattere la normalizzazione delle discriminazioni. “Quell’anno era avvenuto un fatto molto grave: un bambino di 7 anni è stato attaccato e un proiettile lo ha colpito alla schiena, lasciandolo con una disabilità – racconta –. Questo ci ha spinto a dire basta e a impegnarci in prima persona per cambiare la situazione: abbiamo iniziato a fare accompagnamento alle famiglie, sia dal punto di vista psico-socio-emozionale che giuridico. Come rete, denunciamo i casi di violenza sui bambini e sui loro genitori. Si tratta sia di una violenza frontale e repressiva, applicata dalla polizia e dai militari: assassini, torture, vessazioni, violenze fisiche, psicologiche e verbali. Ma c’è anche una violenza fatta di razzismo da parte di tutti i cileni: i Mapuche sono vittime di pregiudizi, vengono insultati e chiamati alcolisti, terroristi… Fin dalla scuola, i bambini Mapuche vengono discriminati e viene loro imposto un modello di apprendimento che si allontana dalla loro cultura. Nel 2020 dovremmo vivere in una società diversa, più empatica, più solidale, più capace di accettare la diversità e di tutelare i diritti di tutti. Speriamo che questo referendum possa rappresentare un passo avanti in questa direzione”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)