Confindustria alla prova del futuro. A Emanuele Orsini il compito di riunificare un’associazione che mette insieme piccole e grandi aziende

Il motore delle relazioni industriali va riavviato, prima che si ingolfi o generi malcontenti

Confindustria alla prova del futuro. A Emanuele Orsini il compito di riunificare un’associazione che mette insieme piccole e grandi aziende

Sarà Emanuele Orsini, piccolo industriale emiliano, a dirigere Confindustria fino al 2028: il ritiro degli altri “concorrenti” ne ha determinato la vittoria. La sua corsa però non è stata facile e sarà suo compito quello di riunificare un’associazione che mette insieme piccole e grandi aziende, il Nord produttivo con il resto del Paese, le grandi realtà parastatali con quelle private.
In particolar modo dovrà ridare slancio a un’associazione appannata, che non gode più del prestigio e soprattutto della forza dei bei tempi in cui una sua decisa presa di posizione faceva vacillare i governi, un suo accordo con i sindacati dettava la politica economica nazionale. Ora Confindustria appare soprattutto una lobby la cui eterogeneità dei soci impedisce però di essere particolarmente incisiva: è difficile chiedere bonus pubblici a sostegno dei mobilieri, con soldi sottratti magari ai petrolieri. O viceversa.
Il vero problema appare insormontabile: a Roma si possono appunto chiedere bonus, sostegni finanziari (risicati), provvedimenti fiscali con un occhio di riguardo; ma, insomma, poca roba. La politica economica viene ormai decisa a Bruxelles, e queste decisioni si confrontano poi con il mondo intero. Ai tempi della liretta, si poteva farsi sentire con l’esecutivo del momento per promuovere qualche salutare svalutazione. Oggi la politica monetaria si fa a molti chilometri di distanza dalla sede di Confindustria; le grandi scelte pure.
Potrebbe però essere un valido interlocutore per le questioni sindacali, in un Paese come l’Italia in cui la contrattazione collettiva è assai sviluppata. Qui però s’intercetta un’altra, crescente debolezza: quella delle organizzazioni sindacali. Divise, sempre più fragili, sempre meno presenti nei gangli produttivi del Paese, si stanno auto-confinando nella riserva dell’impiego pubblico (dove il tesseramento è ancora alto e l’interlocutore è chiaro e unico) e hanno ormai più aderenti pensionati che attivi.
Fatto sta che la contrattazione collettiva langue, quella aziendale è abbastanza episodica e quindi è diventata prassi comune quella individuale: laddove il lavoratore ha poca o nulla forza in una trattativa. Non a caso le retribuzioni italiane sono tra le più basse in Europa; non a caso i lavoratori più qualificati emigrano da Sud a Nord, da noi all’estero; non a caso l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto dei lavoratori, quasi per nulla ripristinato da aumenti salariali. Non a caso è aumentato l’impoverimento di consistenti fasce di italiani, come recentemente certificato dall’Istat.
Il motore delle relazioni industriali va riavviato, prima che si ingolfi o generi malcontenti così vasti come se ne vedono ampie rappresentazioni in altri Paesi d’Europa. Nelle piazze e nelle urne.

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Fonte: Sir