Coronavirus. Lavoratrici del tessile alla fame, serve “un’assicurazione salariale”

La Clean Clothes Campaign denuncia il peggioramento delle condizioni nei paesi in cui sono prodotti gli abiti dei grandi marchi di moda. Lucchetti: “Operaie confinate alle periferie delle filiere rischiano di scivolare nella miseria più nera, serve responsabilità dei marchi committenti”

Coronavirus. Lavoratrici del tessile alla fame, serve “un’assicurazione salariale”

“Per la maggior parte di noi, la pandemia è stata molto dura. Ora siamo costrette ad accettare tagli agli stipendi, pur non essendoci tagli ai profitti. Molte di noi hanno rate da pagare per debiti contratti con le banche, con le cooperative o con gli strozzini. La domanda è: perché abbiamo debiti? Innanzitutto perché i salari non hanno mai coperto i nostri bisogni primari”. Come racconta questa lavoratrice del tessile (che chiede di restare anonima) dall’inizio della crisi sanitaria, milioni di occupate nel settore non hanno ricevuto il pieno stipendio o sono state licenziate senza alcuna indennità. Lo denuncia la Clean Clothes Campaign che già ad agosto aveva mostrato come durante i primi tre mesi, da Marzo a Maggio, avessero perso dai 3,2 ai 5,8 milioni di dollari in paghe non ottenute e indennità non ricevute. Da giugno la Clean Clothes Campaign sta chiedendo ai marchi e ai distributori di mostrare pubblicamente il loro impegno a salvaguardare il sostentamento delle lavoratrici, sottoscrivendo “un’assicurazione salariale” per garantire che le operaie ricevano ciò che gli è dovuto, sia durante la pandemia che oltre, e aderire a un fondo di garanzia che assicurerà sostegno al reddito dei lavoratori, in caso di fallimento dei fornitori. 

I marchi committenti hanno la responsabilità e l’opportunità di dare concretezza alle loro dichiarazioni sulla sostenibilità. Per decenni essi hanno beneficiato del lavoro sottopagato di milioni di lavoratrici che hanno reso possibili ingenti profitti e dividendi per gli azionisti, in molti casi anche durante la crisi - spiega  Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti -. Oggi, nel pieno della seconda ondata di restrizioni dovute alla pandemia, portiamo la voce di quelle operaie confinate alle periferie delle filiere che rischiano di scivolare nella miseria più nera, se non riceveranno almeno i salari di legge e le indennità necessarie a fare fronte, in molti casi purtroppo, alla perdita del lavoro.”

La Clean Clothes Campaign chiede ai marchi e ai distributori della moda di assumersi le loro responsabilità nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori delle loro filiere produttive garantendo che ricevano i salari che gli spettano per legge o per contratto. “Azioni in diverse città del mondo hanno portato in strada la voce dei lavoratori che hanno perso stipendio o lavoro senza alcuna compensazione durante la pandemia - spiega una nota -. Sono persone che da decenni guadagnano salari di povertà, senza alcuna possibilità di accumulare risparmi che avrebbero potuto aiutarle in questo periodo di crisi. Ora vanno a letto letteralmente affamate, senza speranza per il loro futuro”. Intanto una dozzina di marchi ha già risposto positivamente: è tempo che anche le altre aziende seguano questa strada, soprattutto i brand più grandi che possono avere un impatto maggiore come H&M, Nike e Primark. 

Proteste sono previste nei Paesi produttori, come il Myammar e l’Indonesia, in Europa e in Nord America. Attivisti, lavoratori e sindacalisti hanno cercato di portare all’attenzione il grido di protesta di queste donne nel rispetto delle prescrizioni delle normative anti Covid. Diverse azioni sono state realizzate online: migliaia di consumatori si sono uniti con i loro account per chiedere ai marchi di assumersi le loro responsabilità.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)