Da Sarajevo all’Ucraina: la paura delle guerra. Kanita: “Ripetevano che non poteva succedere”
La situazione in Ucraina crea immediati parallelismi con la guerra che ha infiammato la Bosnia ed Erzegovina tra il 1992 ed il 1995: "Quando vedo le scene dall’Ucraina mi trovo subito nella città assediata, nella mia città assediata”, la testimonianza di Kanita-Ita Blazević, interprete che per i suoi servigi allo Stato italiano si è meritata anche l’onorificenza di Cavaliere
La situazione in Ucraina crea immediati parallelismi con la guerra che ha infiammato la Bosnia ed Erzegovina tra il 1992 ed il 1995: a distanza di 30 anni si può notare come il conflitto abbia lasciato vivi ricordi nella memoria di chi l’ha vissuto in prima persona ma, soprattutto, come il tempo trascorso non sia riuscito a cancellare le paure che tornano ad angosciare anche solo per un petardo esploso, figuriamoci per bombe che ammazzano persone al confine con l’Europa e rianimano i sentimenti secessionisti all’interno del Paese.
“Dopo questa esperienza nessuno di noi è più la stessa persona. È come se si fosse bruciata una valvola dentro di noi. Quando vedo le scene dall’Ucraina mi trovo subito nella città assediata, nella mia città assediata”.
Sono queste le parole di Kanita-Ita Blazević, interprete che per i suoi servigi allo Stato italiano si è meritata anche l’onorificenza di Cavaliere, la quale ha vissuto sulla sua pelle il lunghissimo assedio di 4 anni a Sarajevo, restando vedova con due figli:
“Ringrazio Dio che i miei figli siano restati vivi, ma quando adesso guardo i miei nipoti penso: succederà di nuovo? Come non avere paura? Non possiamo più credere se ci dicono: non succederà. Perché ce lo hanno detto anche 30 anni fa”.
Tornando indietro nel tempo al 1° marzo 1992, quando un referendum sancì l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina dalla Jugoslavia con la conseguente reazione di Armata popolare jugoslava e forze serbo-bosniache che miravano a creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, i ricordi delle minacce di Radovan Karadžić in Parlamento suonano come un avvertimento sottovalutato. Anche quando i cecchini serbi posizionatisi attorno a Sarajevo, il 5 aprile 1992, uccisero Suada Dilberović e Olga Sučić, aprendo il fuoco sulle migliaia di persone raccoltesi per strada per protestare contro la guerra che aveva già cancellato Vuvokar in Croazia, anticipando i bombardamenti che avrebbero sancito l’inizio dell’assedio.“Eravamo spaventati, increduli, non si poteva immaginare una situazione simile. I politici continuavano a ripeterci che era solo un malinteso, un disguido, una cosa sporadica e che non poteva scatenarsi la guerra ma si sarebbe rimesso tutto a posto”,ripete più volte Kanita-Ita Blazević, mentre racconta come immediatamente tutta Sarajevo si sia ritrovata completamente scollegata dal resto del mondo, senza acqua, corrente elettrica e viveri a causa del saccheggio dei negozi.“Mio marito aveva allestito un piccolo sgabuzzino sotto le scale per stare più al sicuro, ma ogni tanto tornavamo in sala per guardare la televisione e cercare di capire cosa stesse accadendo, visto che c’era una grande confusione. Il salotto guardava verso la montagna ed abbiamo sentito un colpo, come un petardo nella stanza. Mio marito si è preso la pancia e mi ha detto: io sono finito”.L’assedio di Sarajevo era iniziato con la morte della suocera, subito dopo Kanita si è trovata a dovere affrontare le difficoltà da sola e con due figli di 3 e 16 anni perché il marito è morto a causa di un colpo di contraerea che ha bucato il muro di casa, con nel portafogli solo i soldi per pagare il funerale, alla porta alcune persone pronte ad approfittare della situazione chiedendo indietro soldi mai prestati o regali fatti. Una guerra nella guerra. Fortunatamente con vicino anche tante persone disposte ad aiutarla, come l’amico che le ha anticipato un sacco di caffè crudo da tostare e macinare a mano per cercare di guadagnare qualcosa gestendo un bar, o il camionista “un po’ pazzo” che ha accettato di trasportare una stufa a legna per i genitori malati dall’altra parte di Sarajevo, solo se mentre correvano a 130 km/h per evitare il tiro dei cecchini lei avesse cantato un motivo antico che gli piaceva molto. Ma anche la persona che rischiando la vita saliva sul tetto di casa per sistemare le tegole ogni volta che i lanci di mortaio le rompevano, i vicini che la aiutavano a tagliare la legna e l’amica con la quale organizzava serate al pianoforte e scambio di ricette su come realizzare un pasto senza veri ingredienti.“Un giorno sono andata a trovare mia sorella con il figlio piccolo, era inverno e non c’erano foglie sugli alberi per coprirmi dal tiro dei cecchini che hanno iniziato a spararmi di sopra. I colpi sbattevano a destra e sinistra. Sono scappata per nascondermi dietro un muretto ed il bambino ha perso una scarpetta. Sentendo il pianto del bambino, un signore anziano è tornato indietro, rischiando la vita, per recuperare la scarpetta. Sono immagini che non possiamo dimenticare”.
Una scena come tante viste in quel periodo in televisione, con gente che corre tra il tiro dei cecchini, appostati più in alto, su persone che vorrebbero continuare a vivere la loro vita, normale e tranquilla come sempre.
“La guerra in Bosnia è stata inaspettata. Noi eravamo increduli perché eravamo abituati a vivere tutti insieme. Sarajevo non ha mai avuto un quartiere dove abitavano solo ortodossi, solo cattolici, solo ebrei, tutti abbiamo vissuto porta a porta e si vede camminando per il centro storico, dove in un fazzoletto di terra abbiamo una cattedrale cattolica, un’antica sinagoga del ‘600, una moschea principale del ‘500 ed una chiesa ortodossa del ‘500 circa”.Per descrivere meglio la situazione Kanita specifica come questo vivere insieme pacificamente abbia portato al 30% di matrimoni misti già di quarta generazione. “Ci hanno sempre insegnato ad amare e rispettare tutti a prescindere dalle diversità, perché solo così, mi diceva mia nonna, puoi rispettare te stessa. Alla scuola elementare avevo come compagno di banco un ragazzo ebreo che mi insegnava i canti ebraici che mi suonavano bene anche se non sapevo cosa significassero le parole”, prosegue nel suo racconto Kanita che definisce l’assedio subito “indescrivibile” come lo è stata la reazione agli attacchi.“Chi assediava sperava in una guerra lampo ma ha trovato la reazione di giovani senza esperienza ma organizzati per difendere la loro città. Noi non abbiamo avuto conflitto tra noi, non ci sono stati combattimenti in città, non abbiamo saccheggiato i musei, fatto saltare in aria chiese, moschee o sinagoghe”.
La guerra è finita ufficialmente il 14 dicembre 1995, con la stipula dell’accordo di Dayton, ma a Sarajevo è continuata fino alla primavera del 1996 a causa di alcune parti della città ancora assediate. Nella mente di Kanita resteranno sempre ben impresse quelle immagini che sembra di vedere anche dall’esterno, in quegli occhi che le si fanno lucidi mentre rivive la sua esperienza attraverso quanto vede che sta accadendo in Ucraina e ripete: