“Donne di conforto”: tribunale sudcoreano condanna il Giappone. La Chiesa sottolinea la sofferenza delle vittime

Nel pieno dello stato di emergenza si acuisce la tensione tra Giappone e Corea del Sud. A scatenare il nuovo caso diplomatico tra i due Stati è stata la sentenza emessa l’8 gennaio dal Tribunale distrettuale centrale di Seoul, che condanna il Giappone al pagamento di una somma di circa 78 mila euro a titolo di risarcimento danni per ciascuna delle 12 querelanti vittime dello “schiavismo  sessuale” subito nel corso della Seconda guerra mondiale ad opera dei militari dell’esercito imperiale con il tacito assenso dello Stato giapponese. La questione trattata nel processo riguarda il dramma delle cosiddette “donne di conforto” che coinvolse, dal 1932 al 1945, tra le 50 mila e le 200 mila giovani donne, per la maggior parte sudcoreane, ma anche giapponesi e provenienti da quasi tutti i territori allora occupati dall’impero del Sol Levante, reclutate dalle forze armate imperiali nipponiche tra le fasce sociali più povere con l’illusione di un lavoro e invece costrette a prostituirsi per le truppe dell’allora imperatore Hirohito

“Donne di conforto”: tribunale sudcoreano condanna il Giappone. La Chiesa sottolinea la sofferenza delle vittime

Nel pieno dello stato di emergenza si acuisce la tensione tra Giappone e Corea del Sud.
A scatenare il nuovo caso diplomatico tra i due Stati è stata la sentenza emessa l’8 gennaio dal Tribunale distrettuale centrale di Seoul, che condanna il Giappone al pagamento di una somma di circa 78 mila euro a titolo di risarcimento danni per ciascuna delle 12 querelanti vittime dello “schiavismo  sessuale” subito nel corso della Seconda guerra mondiale ad opera dei militari dell’esercito imperiale con il tacito assenso dello Stato giapponese.

La questione trattata nel processo riguarda il dramma delle cosiddette “donne di conforto” che coinvolse, dal 1932 al 1945, tra le 50 mila e le 200 mila giovani donne, 

per la maggior parte sudcoreane, ma anche giapponesi e provenienti da quasi tutti i territori allora occupati dall’impero del Sol Levante, reclutate dalle forze armate imperiali nipponiche tra le fasce sociali più povere con l’illusione di un lavoro, rinchiuse invece in comfort stations, vere e proprie case di tolleranza gestite dalle stesse forze armate, e costrette a prostituirsi per le truppe dell’allora imperatore Hirohito.Janfu è il termine giapponese composto da tre ideogrammi che significano rispettivamente “conforto, relax, donna”, tradotto “Donne di conforto” o Comfort Women, formando un raccapricciante eufemismo

nell’improbabile tentativo di descrivere in modo meno crudo il terribile sistema di sfruttamento sessuale che la Corte di Seoul ha qualificato come “atti criminali commessi dall’esercito giapponese in modo pianificato e organizzato”.

Le autorità giapponesi, che da sempre hanno cercato di sfuggire ad un riconoscimento legale pieno delle proprie responsabilità, anche in questa occasione hanno reagito con durezza:

“Secondo il diritto internazionale – ha dichiarato  ai giornalisti il premier Yoshihide Suga – la sentenza viola la regola internazionale in base alla quale gli Stati sovrani non sono soggetti alla giurisdizione di altri Paesi e ritengo che la causa debba essere archiviata”, liquidando quindi la questione con l’affermazione che “una simile sentenza è assolutamente inaccettabile”.

Anche il ministro degli Esteri, Mogi, in un colloquio telefonico avuto il 9 gennaio con il suo omologo sudcoreano Kang Kyung Wha, ha protestato con forza definendola “Estremamente deplorevole e assolutamente inaccettabile” e aggiungendo che con l’accordo Giappone-Corea del 2015 la questione delle “donne di conforto” aveva trovato una “soluzione definitiva e irreversibile”.

C’è invece chi ritiene che tale accordo stipulato dagli allora premier dei rispettivi Paesi sia tutt’altro che risolutivo in quanto non tenne nel dovuto conto le richieste delle vittime e soprattutto, come sostiene l’attuale governo sudcoreano, perché privo del presupposto fondamentale del “riconoscimento esplicito del coinvolgimento e della responsabilità delle forze armate e del governo nipponico”.

È facendo leva sul principio della immunità degli Stati dalla giurisdizione interna di un altro Stato che il governo giapponese intende contestare la validità del processo e la efficacia della condanna,

mentre le autorità sudcoreane minacciano di reagire con il sequestro e la vendita dei beni dello Stato nipponico presenti sul proprio territorio. I ministri degli Esteri dei due Paesi hanno in corso colloqui per discutere le rispettive posizioni attualmente inconciliabili e per verificare gli spazi di manovra per evitare un peggioramento dei rapporti tra i due Paesi.

La Chiesa giapponese, particolarmente sensibile e impegnata sui temi relativi ai diritti umani aveva espresso la propria posizione in merito alla questione delle “Comfort women” in un documento.

Il testo, datato 12 dicembre 2020 e indirizzato al primo ministro Yoshihide Suga, è pubblicato sul sito ufficiale  della Conferenza episcopale giapponese il 7 gennaio con il titolo  “Dichiarazione di richiesta al Governo, nella ricorrenza del 20º anniversario del Tribunale internazionale delle donne sui crimini di guerra”.

La Dichiarazione porta la firma di monsignor Katsuya Taiji attuale presidente del Japan catholic justice and peace council , organismo della Conferenza dei vescovi nipponici, e si rivolge al governo giapponese avanzando alcune richieste per una soluzione al problema,

con lo sguardo rivolto alle sofferenze delle vittime più che all’orgoglio nazionale e agli equilibri internazionali.

Nel documento si ripercorrono alcune delle principali tappe del lungo e travagliato percorso che portò il dramma delle Comfort women, dopo decenni di silenzio, all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica internazionali fino alla celebrazione del processo tenutosi a Tokyo dal 12 al 18 dicembre 2000 presso il Tribunale “privato” internazionale nato dall’iniziativa di movimenti popolari femminili, promossi e composti anche con la partecipazione di donne cristiane e insediato simbolicamente proprio nella Capitale del Paese responsabile.

Il documento del Japan catholic justice and peace council, dopo aver definito

il sistema delle Donne di conforto “un crimine nazionale” sottolinea come la violenza sessuale, spesso impunita, sia ancora diffusa nella società

e prosegue ricordando, senza ipocrisie, che anche alcuni componenti della Chiesa se ne sono macchiati.

Proprio con questa esperienza alle spalle affrontata dalle autorità ecclesiastiche con l’assunzione delle responsabilità, la richiesta di perdono alle vittime e la collaborazione con la giustizia, mons. Katsuhjya Taiji ha potuto rivolgersi al primo ministro Suga scrivendo che:

“L’atteggiamento del Governo giapponese non dovrebbe essere quello di nascondere la realtà e di rimuovere i fatti compiuti, ma piuttosto quello di affrontarli conservandone senza paura la memoria perché non si ripetano mai più”.

In questa prospettiva la Chiesa chiede al governo di riconoscere ufficialmente il sistema “donna di conforto” come sistema di “violenza e schiavitù sessuale” noto allo Stato giapponese, di ascoltare le ragioni delle vittime non consultate nel presunto accordo del 2015 e di risarcirle secondo le loro richieste, di presentare scuse pubbliche e formali, di inserire nella Storia ufficiale del Giappone la vicenda delle “donne di conforto” per non dimenticare, di interrompere ogni pressione finalizzate ad impedire la posa o a indurre la rimozione della “Statua della pace” (Una statua bronzea a grandezza naturale che rappresenta una giovane coreana simbolo di tutte le Comfort Women).

Sortirà qualche effetto il documento del Japan catholic justice and peace council?

La risposta nelle parole di San Paolo che il presidente, mons. Taiji scelse come motto in occasione del suo insediamento come vescovo della diocesi di Sapporo: “Virtus in infirmitate perficitur” (2Cor 12,9) a significare che la potenza di Dio si manifesta nella debolezza, consapevole della realtà, spiegava, della piccola comunità cattolica apparentemente insignificante e impotente nella società giapponese.

Massimo Succi

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Fonte: Sir