“Grande Meraviglia”: i manicomi di ieri e di oggi, nel libro di Viola Ardone. L'intervista

Il manicomio diventa “Mezzomondo”, in cui “Lampadina” pratica gli “elettromassaggi”: così Mutti protegge col gioco la figlia Elba, nata tra quelle mura. Finché il dottor Meraviglia non apre le porte e butta giù i muri, come ha imparato dal dottor Basaglia e come accade, in quei giorni, anche a Berlino

“Grande Meraviglia”: i manicomi di ieri e di oggi, nel libro di Viola Ardone. L'intervista

La libertà è una condizione da maneggiare con cura. Ma se la cura manca, la libertà somiglia all'abbandono. La legge Basaglia ha fatto la storia, ma ha anche lanciato una sfida e, insieme alla sfida, la responsabilità del rischio: “Grande Meraviglia”, ultima creatura nata dalla penna di Viola Ardone e da qualche giorno in libreria, questa sfida l'ha presa sul serio e fatta sua, negli anni in cui l'ideologia e l'utopia erano l'aria che si respirava e la passione si intrecciava con la professione. Grande Meraviglia è un “dottorino”, uno psichiatra senza camice né ricettario, che un giorno arriva a “Mezzomondo”, dove Elba vive con sua mamma, chiusa tra queste mura non “per un disagio suo, ma per il disagio della società verso di lei, considerata inadeguata. Così accadeva allora, quando i manicomi erano pieni non tanto di persone malate, quando ti persone diverse e per questo da tenere lontane, isolate, contenute”. Viola Ardone racconta così a Redattore Sociale i protagonisti del suo ultimo libro: Elba, la mamma “Mutti”, il dottorino e il dottore, quello col camice, “Colavolpe”, attorniato da uno stuolo di assistenti ed esecutori, tra cui “Lampadina”, addetta agli “elettromassaggi”. Un mondo in cui tutto prende un nome di fiaba, per una bambina nata tra quelle mura e protetta dalla mamma attraverso il gioco e la finzione. Un mondo fatto di catene visibili e invisibili, di medicinali che costringono a dormire e trattamenti che portano via la memoria e la coscienza. Un mondo in cui arriva, un giorno, la rivoluzione, la libertà: una libertà a cui, però, non tutti sono pronti e che per qualcuno diventa un balcone da cui volare, per qualcun altro un nuovo viaggio verso nuove mura: perché c'è il bisogno di libertà, ma c'è anche il bisogno di sentirsi protetti, contenuti, come in un abbraccio che toglie il fiato ma che tiene in vita.

Oggi i manicomi non ci sono più, almeno in teoria, ma il disagio mentale è in preoccupante aumento e se ne parla sempre di più. C'è un collegamento tra l'attualità e la scelta di scrivere un romanzo sulla legge Basaglia?
Sì, certamente l'attualità mi ha stimolata. Da un lato mi interessava raccontare un momento significativo, come la legge Basaglia, in cui l'Italia è stata all'avanguardia da tanti punti di vista: pensiamo alla legge Basaglia, ma anche alla nascita del Sistema sanitario nazionale. D'altro canto, mi sembrava che il tema del disagio mentale risuonasse forte nel presente, perché quella legge all'avanguardia è erosa nella quotidianità da mancanza di fondi e di interesse. Alcuni specialisti con cui ho parlato mi hanno detto che si stanno ricreando strutture molto simili ai manicomi, perché la cura e il reinserimento costano moltissimo, dal punto di vista sociale oltre che economico. E poi c'è questo disagio che cresce, soprattutto tra i giovani. Ho incontrato alcuni di loro al Regina Margherita di Torino: una classe di ragazzi e ragazze ospedalizzati per disagi psichici, dall'anoressia alla depressione, tanti diversi disturbi amplificati dal covid. Facendo quell'esperienza, ho pensato che se fossero nati prima di quella legge, sarebbero stati internati.

Quali altre fonti hai utilizzato, per documentarti sul tema? E cosa hai scoperto?
Ho studiato i testi di studiose e studiosi che hanno fatto ricerche sugli archivi e le cartelle cliniche, recuperate dopo la chiusura dei manicomi. Da questi documenti è emerso un fatto drammatico: tanti uomini e soprattutto tante donne erano state internate non per motivi legati al loro disagio, ma per un disagio della società nei loro confronti. Ho consultato materiali letterari, saggi, libri di psichiatri, ho parlato anche con psichiatri napoletani che hanno vissuto quella stagione e hanno raccontato le loro difficoltà, dovute anche al fatto che Basaglia è morto poco dopo l'entrata in vigore della legge e l'applicazione è stata affidata a leggi regionali, con conseguenti divaricazioni territoriali. Ho scoperto tante esperienze contraddittorie, tra la grande idealità di liberare l'uomo e la responsabilità personale del medico di interpretare la legge, con tutti i possibili rischi.

La complicata dialettica tra costrizione e libertà, tra ideale e realtà: può essere questo il filo conduttore di quella che viene presentata come la tua trilogia: Il treno dei bambini, Oliva Denaro e adesso Grande Meraviglia?
Sì, il disagio della libertà: nel Treno dei bambini, c'è Amerigo, a cui viene offerta un'opportunità, che però è anche una rinuncia. La mamma lo ha reso libero, ma lui deve ricostruirsi la propria storia. Oliva Denaro si prende la “libertà” di denunciare, ma poi deve accettare la solitudine, che è ancora ciò che spaventa tante donne vittime di violenza. Qui è ancora più chiaro questo disagio della libertà: si aprono le porte del manicomio, ma Elba ha timore, perché non le hanno insegnato la libertà. Poi la libertà è anche libertà di sbagliare, è la libertà di un figlio di deluderti.

Liberare è abbandonare: è questa una delle principali critiche indirizzate a Basaglia e a chi, con lui e dopo di lui, ha voluto liberare gli internati. Effettivamente, quando viene liberato il “Mezzomondo”, i problemi non mancano...
Sì, anche perché esistono corridoi bui e catene anche fuori dai manicomi: penso alle famiglie che restano sole, nella disperazione più totale, che non hanno strumenti per capire la patologia del figlio, o del compagno e vedono il loro caro profondare in disturbi molto gravi. Famiglie sommerse da vergogna e dolore, che non sanno a chi rivolgersi, perché non ci sono le strutture. In questa crisi del sistema sanitario, che oggi va verso la privatizzazione e l'indifferenza, credo che questo sia forse il segmento che soffre di più. Chi si rompe una gamba, sa dove trovare un medico che gliela aggiusti, ma chi ha un disturbo psichico, difficilmente trova chi se ne faccia carico, per cui il disturbo resta spesso in famiglia, con conseguenze anche terribili. Anche per questo ho voluto scriverne: perché parlarne non faccia più paura.

Il dottor Meraviglia è un uomo controverso: sa guardare molto lontano, ma sembra incapace di vedere ciò che è vicino. Delude la moglie e i figli e da questi riceve rimproveri e recriminazioni che sono pugnalate. Alla fine, però, sembra trovare salvezza (anche senza averla chiesta) nell'abbraccio di una “vera” figlia”. E' così?
Meraviglia rappresenta gli uomini e le donne di quella generazione, che hanno vissuto molto rivolti verso l'esterno, chiedendo di aprire la coppia, di aprire la società, in nome di grandi ideali incarnati anche in modo narcisistico. Questo ha avuto un riverbero sulla famiglia, eppure sono convinta che questo dottore visionario tutti vogliano bene: la moglie, i figli, Elba, l'amico. È la storia di una famiglia che, al di là della famiglia tradizionale, resta famiglia. Alla fine, impara ad affidarsi: lui, che ha sempre aspettato che gli altri si affidassero a lui, capisce che c'è una semplicità e una felicità nel ricevere affetto. Così, si lascia andare ala fragilità della vecchiaia, fa pace con la sua debolezza e si lascia, anche lui, contenere in un abbraccio.

Chiara Ludovisi

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)