La responsabilità di essere credibili: l’Occidente al bivio. La responsabilità di essere credibili: l’Occidente al bivio

Nello scollamento tra le più spregiudicate rappresentazioni apologetiche e il senso di realtà (mai così sottovalutato) della gente comune, occorre che l’Occidente “plurale” (meglio che “collettivo”) abbia un sussulto nel suo stesso interesse. L’avallo alla trasgressione di certi limiti non solo delegittima, ma precostituisce precedenti per chiunque: se tutto si può, ci si porta su una strada senza ritorno

La responsabilità di essere credibili: l’Occidente al bivio. La responsabilità di essere credibili: l’Occidente al bivio

Sebbene l’informazione europea abbia spostato i riflettori dall’Ucraina, quelli statunitensi tornano alquanto vivaci sul tema. Anche impietosamente, insistendo sul fallimento della controffensiva e dipingendo Zelensky che sbraccia per attirare attenzione e forniture. Il Washington Post rilancia sul ruolo di Kiev nel sabotaggio del NordStream2, mentre Cnn e Politico tratteggiano i cali di consenso del governo, incapacità militari, fratture nell’establishment, purghe, corruttele, reclutamenti coatti di donne e soggetti già esentati per motivi clinici: il quadro di un investimento in perdita su cui non vale più insistere. Con inusitata schiettezza si sussurra che è ora di preparare il disimpegno, avendo centrato l’obiettivo di rompere la liason euro-russa. A dirlo già bastano i profitti del gnl esportato in Europa, passata a una dipendenza tale da esporsi a rischio approvvigionamento o a nuove impennate dei costi, qualora la domanda cinese aumentasse sui mercati del gas liquefatto.

Mentre Borrell al Congresso Pse di Malaga propone lacrime e sangue a oltranza – nella prospettiva di sostituire in toto gli Usa nelle forniture a Kiev – diversi analisti d’Oltreoceano insistono piuttosto sul potenziamento del controllo strategico sui gregari. La vicenda Tim sembra confermare. Aggirando l’assemblea dei soci, con l’avallo del governo (che rinuncia al veto del golden power previsto per simili casi), il Cda cede la rete fissa al fondo speculativo Kkr, che ha già un piede azionario nelle sue controllate della fibra e dei cavi sottomarini (il nodo di Palermo è la porta mediterranea delle connessioni europee con Africa, Medioriente e Sudest asiatico). Dunque si torna a un regime di monopolio, stavolta nelle mani di un privato estero, con buona pace dei vindici della sovranità e del mercato concorrenziale. Le implicazioni strategiche delle telecomunicazioni sono rilevantissime sotto il profilo della sicurezza e della difesa nazionale, tanto più che il fondo, gestito da alcuni dei colossi della finanza globale (BlackRock, Vanguard et alii), ha addentellati nel comparto securitario Usa (sintomatica la sedia nel top management del generale Petraeus, a capo del bureau di analisi geopolitiche, già direttore della Cia durante le avventure in Afghanistan e Iraq). Ma quella italiana è solo l’ultima bandierina della serie di acquisizioni collezionate nel settore da Kkr negli ultimi 3 anni: Spagna, Germania, Olanda, Colombia, Filippine, Singapore, Malesia, ecc.

Nell’insieme è quanto basta per sollecitare una revisione del concetto di Western civilization, introdotto nel discorso pubblico dalla Columbia University nel 1919, all’indomani del cd. “suicidio europeo” e dell’affaccio Usa sulla scena globale: rappresentazione ideologica di una civiltà sempre più allargata oltre il dato geografico, secondo una connotazione culturale fondata sull’universalismo dei diritti umani e sulla promozione della libertà dei popoli. A essa oggi necessita urgentemente di smentire il sospetto, serpeggiante non più solo nel Sud globale, di fornire una copertura alle disinvolture di certo unilateralismo egemonico.

L’urgenza in parola, mai come prima, si impone in forza di quanto va consumandosi a Gaza. Il massacro quotidiano si unisce alle note sui neonati morti nelle incubatrici degli ospedali privi di elettricità e sull’assenza d’acqua potabile a causa dei desalinizzatori fermi mancando di carburante. A proposito di mare, la notizia delle 12 licenze concesse dal governo israeliano a 6 società (tra cui la nostra Eni) per le prospezioni dei giacimenti di gas a largo della costa fa temere che le intenzioni sul futuro dei palestinesi non siano affatto limitate allo sradicamento di Hamas. L’attuale fame energetica dell’Europa incrocia l’opportunità di cercare altro gas attorno a Leviathan e Tamar, due gigantesche riserve scoperte una trentina di anni fa: circa 1000 miliardi di metri cubi non sfruttati a pieno regime a causa degli scarsi investimenti dovuti all’instabilità dell’area e delle contese sui confini marittimi con il Libano. A ciò si aggiunge il Gaza Marine, potenzialmente palestinese ma reso irraggiungibile dal blocco navale israeliano. Questi e altri giacimenti erano stati inclusi nel progetto EastMed, gasdotto patrocinato da Washington (con collegato disegno di una Nato mediorientale) per convogliare il gas sottomarino verso l’Europa, ma osteggiato dalla Turchia stanti le rivendicazioni sui fondali ciprioti.

Assieme con il quanto mai emblematico bombardamento delle sedi Onu nella Striscia, la notizia delle licenze rimbalza mentre vari governi africani annunciano azioni contro Tel Aviv per crimini di guerra e genocidio presso la Corte penale internazionale (di cui Israele non riconosce la giurisdizione), deplorando al contempo il silenzio e le sponde occidentali alla carneficina.

Non serve molto a percepire il baratro in cui rischia di sprofondare la credibilità occidentale, esponendosi a tacce che vanno ben oltre il doppiopesismo. Le abnormità in cronaca – riduttivo ricondurle alla sproporzionata violazione della legge del taglione – sembrano infatti sdoganare la logica dello sterminio e la legge della colpa collettiva, trascinando con sé la dottrina sulla “responsabilità di proteggere”, declassata al rango di dispositivo strumentale a sollevare crociate contro la barbarie di turno utilmente designata. Lo stesso per i diritti umani, che certo non possono valere (historia magistra di allievi distratti) quando le vittime, per ragioni etniche, religiose, ecc., vengono pubblicamente annoverate come subumane. Stupisce che ciò non desti riprovazione presso istituzioni che hanno codificato la protezione animale, stimolando nelle scuole la sensibilità per le specie protette e sostenendo campagne contro le pratiche crudeli negli allevamenti.

Nello scollamento tra le più spregiudicate rappresentazioni apologetiche e il senso di realtà (mai così sottovalutato) della gente comune, occorre che l’Occidente “plurale” (meglio che “collettivo”) abbia un sussulto nel suo stesso interesse. L’avallo alla trasgressione di certi limiti non solo delegittima, ma precostituisce precedenti per chiunque: se tutto si può, ci si porta su una strada senza ritorno. Prima che temere nemici esterni, è bene evitare di farsi nemici di se stessi, smarrendo la carica identificativa dei valori che ci si intesta. Per non consegnarsi, già abbondantemente disincantati, alla rovinosa tentazione che vorrebbe farci credere che “il re è nudo”.

Giuseppe Casale

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Fonte: Sir