Le donne dalla guerra alla pace. Dall'Afghanistan all'Ucraina, “sono loro a pagare di più”

"Che sia un 8 marzo di pace. Adesso è tempo di dire basta”: è l'appello di Pangea, che insieme a F. e ad altre donne afghane che l'Ong ha aiutato a fuggire, oggi chiede a gran voce la pace, dopo aver visto in faccia la guerra. “In Ucraina come in Afghanistan, sulle donne ricade il costo economico e sociale delle guerre”

Le donne dalla guerra alla pace. Dall'Afghanistan all'Ucraina, “sono loro a pagare di più”

Ci sono le donna ucraine, che varcano il confine e affrontano lunghi viaggi, per assicurare ai propri figli un futuro di pace. Ci sono le donne afghane, fuggite qualche mese fa, che oggi provano a ripartire, in Italia o negli altri Paesi europei che le hanno accolte. E ci sono quelle rimaste lì, in Afghanistan, dove la pace quasi non si sa cosa sia e i talebani ora decidono le leggi e le sorti, approfittando anche della “distrazione” occidentale. E poi ci sono le donne di tutte le altre guerre, che fuggono in cerca di pace e che questa pace vorrebbero costruirla, ben conoscendo le miserie e gli orrori della guerra. Come Sofia, fuggita grazie a Pangea onlus da Kabul qualche mese fa, quando i riflettori erano puntati sull'Afghanistan. Dal palco della manifestazione della pace, a Roma, sabato scorso ha lanciato il suo appello, presentandosi come “una costruttrice di pace. Vengo dall'Afghanistan – ha detto - dove ho esperienza di 45 anni di guerra. Ad oggi le donne in Afghanistan sono state completamente rimosse da qualsiasi ambito della vita, sono sempre ignorate nei processi di pace – ha ricordato - Ma penso che senza le donne non si potrà mai arrivare alla pace nel mondo. Non date più armi alle persone, date il potere alle donne e vedrete che si raggiungerà la pace velocemente. Siamo qui per sollevare la nostra voce contro la guerra in tutto il mondo: non importa che sia in Afghanistan, Siria o Ucraina, noi dobbiamo essere contro la guerra”.

Ne è convinto il presidente di Pangea, Luca Lopresti, “stupito, rammaricato e preoccupato che in questi giorni non si senta un pensiero di pace e che chi prova ad esprimerlo sia accusato di essere un codardo. Tutta la comunicazione che vedo in questo periodo è una comunicazione di guerra: si vedono solo uomini ed esperti di combattimento. Nei mille talk-show televisivi, si vedono solo uomini che parlano di guerra, non c'è la voce di una donna che parli di pace, nessuna di quelle salite sul palco di Roma sabato scorso”.

Storie di “ripartenza”

A Roma, insieme a Sofia, in piazza c'era F., che aveva 23 anni quando ad agosto è riuscita a salire su un aereo per fuggire dall’Afghanistan ripiombato in mano ai talebani. Lei è una delle tante 'figlie' di Pangea - racconta Simona Lanzoni, vice presidente di Pangea - Era piccolissima quando sua madre ha bussato alla nostra porta a Kabul per seguire un corso di alfabetizzazione e ottenere quel microcredito che le ha poi permesso di aprire una sua attività. Madre e figlia sono diventate negli anni nostre storiche collaboratrici, che seguivano nei nostri uffici a Kabul un pezzo importante del nostro lavoro. L’arrivo dei talebani ha cambiato tutto, non solo per le due donne ma per tante altre nostre colleghe, molte delle quali siamo riuscite a mettere in sicurezza con il ponte aereo di agosto. Ora F. studia italiano e sta per iscriversi all’università, il suo futuro ha un volto diverso fuori dal burqua. Con lei, insieme ad altre donne afghane, nostre storiche collaboratrici di Pangea a Kabul, abbiamo voluto percorrere la manifestazione per la pace di sabato, che ha attraversato Roma, per dire che la Pace si costruisce solo con la pace, con il disarmo, con la riduzione delle spese militari, con la partecipazione delle donne ai processi di pace, con il superamento delle alleanze militari e soprattutto proteggendo le persone - aggiunge Lanzoni - Pangea conosce bene le conseguenze della guerra e della negazione dei diritti umani, perché da 20 anni lavora in Afghanistan con le donne e per le donne in opposizione al regime talebano. Oggi siamo con le donne che sono riuscite a fuggire, ma anche con quelle che sono ancora lì e che manifestano perché negli anni hanno costruito consapevolezza e che per questo il prezzo peggiore: sono donne, sono consapevoli dei loro diritti, vogliono studiare e lavorare e per questo sono il nemico numero uno dei talebani”.

Il pensiero, naturalmente, vola dove gli aerei non possono volare: da Roma all'Afghanistan, passando per l'Ucraina: “In Ucraina come in Afghanistan, sulle donne ricade il costo economico e sociale delle guerre. E in questi giorni che precedono l’8 marzo è doveroso ricordarlo. Uomini mandati a combattere, donne lasciate a morire di fame e a rimboccarsi le maniche di fronte a un disastro umanitario – aggiunge Lanzoni - Le guerre si fanno sempre sui corpi delle donne, le rendono povere e invisibili, perché rendono invisibile qualsiasi altro attore a parte i governi, gli eserciti e gli uomini che sono in guerra. Non è un caso che proprio la Russia nell’ultimo decennio ha sostenuto e finanziato vari gruppi di pressione legati ad alcuni movimenti ultra conservatori, i cui obiettivi sono ristabilire un presunto 'ordine naturale', opporsi al divorzio, all’accesso ai contraccettivi, all’aborto, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso. La retorica della guerra, del patriottismo rafforzano le gerarchie di genere – afferma ancora Lanzoni - Dalle piazze dove protestano contro l’invasione dell’Ucraina, le femministe russe ce lo ripetono: nella militarizzazione e nella guerra non c’è liberazione, ma costrizione. La decisione dell’Europa di fornire aiuto militare agli ucraini è preoccupante in questo senso. La guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale: come dimostra la storia, durante la guerra il rischio di essere violentata aumenta di molto per qualsiasi donna. La guerra è anche combattuta all’insegna dei 'valori tradizionali' che includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne. Per questo è necessario che le femministe di tutto il mondo partecipino a manifestazioni pacifiche e lancino campagne contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin, i diritti negati delle donne in Afghanistan e le tante guerre dimenticate, organizzando – proprio come hanno fatto a Kabul e in molte altre province - le proprie azioni”.

Includere le donne nei processi di pace

Per questo, afferma ancora Lanzoni, “è fondamentale riconoscere il ruolo delle donne nei processi di pace e nella risoluzione dei conflitti. Un ruolo spesso taciuto o trascurato, perché le guerre storicamente vengono raccontate al maschile. La realtà dei fatti ci racconta il contrario, di un ruolo attivo e centrale delle donne in questi percorsi, tanto che la stessa legge 1325 le riconosce non solo come vittime ma anche come agenti di ricostruzione di società e mediatrici dei processi politici. È fondamentale cogliere questo aspetto quando si parla di conflitti. Quando parlano le armi, le donne vengono cancellate e costrette a dimenticare la propria storia personale e collettiva. La guerra è, come sempre, lo strumento per la ridefinizione dei poteri: per questo le donne vengono zittite e ridotte a un ruolo di subalternità. Noi donne rivendichiamo un ruolo attivo nei processi di pace, di mediazione e di risoluzione dei conflitti. Adesso è tempo di dire basta e cominciare un’altra storia”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)