Nagorno Karabakh. Il dolore di un popolo senza terra e sotto assedio di cui “nessuno più parla”
Il Nagorno Karabakh appare sempre più come una “partita” giocata tra Russia, Stati Uniti, Europa e Turchia, sulla pelle delle 100mila persone costrette a lasciare la loro terra e a rifugiarsi in Armenia, senza casa e senza futuro. “Il mondo – dice padre Tirayr Hakobyan, archimandrita della Chiesa apostolica armena in Europa occidentale – non può chiudere la bocca di fronte a quanto sta accadendo e celare la verità. La giustizia non può rimanere ostaggio degli interessi. Questo silenzio renderà le guerre più prepotenti ma quel punto nessuno riuscirà più a fermarle”
100mila armeni in fuga dal Nagorno Karabakh, di cui 30mila bambini. Hanno lasciato tutto. Dopo mesi di assedio, senza acqua e cibo, sono stati obbligati a scappare nel giro di 24/48 ore senza poter prendere nulla. Chi in macchina, chi sui camion. “I soldati, sono entrati nelle loro case. Hanno svuotato e rubato tutto. Hanno distrutto anche il patrimonio ecclesiale, spirituale e culturale del popolo armeno. Hanno distrutto chiese, monumenti, cimiteri”. “Questo è odio, odio verso tutto quello che rappresenta l’Armenia. E nessuno ne parla”.
“Il mondo deve fermare tutto questo. Non è possibile che gli interessi siano più importanti della giustizia. Non è giusto rimanere in silenzio”.
A dare voce alla sofferenza del popolo cristiano armeno e alla grave emergenza umanitaria che si è aperta con il conflitto in Nagorno Karabakh, è padre Tirayr Hakobyan, archimandrita della Chiesa Apostolica Armena in Europa Occidentale, in un incontro per giornalisti organizzato a Roma dall’Associazione Iscom della Pontificia Università della Santa Croce. Il Nagorno Karabakh appare sempre più come una “partita” giocata tra Stati Uniti, Russia, Europea e Turchia, sulla pelle però delle 100 mila persone, uomini, donne, bambini, anziani, costrette a lasciare la loro terra e a rifugiarsi in Armenia. “Lì – spiega l’archimandrita – ricevono un piccolo contributo dal governo armeno, ma può essere una situazione provvisoria. Questa gente deve trovare un lavoro, ricominciare una vita da zero. Nei loro occhi si legge la mancanza di speranza. Abbiamo perso tutto, dicono. Occorre quindi aiutarli non solo materialmente, ma anche sostenerli psicologicamente”.
La preoccupazione è soprattutto per i bambini costretti a fuggire, strappati alle loro case, alla loro vita. Molte famiglie hanno deciso di non allontanarsi dal confine, con l’intenzione di poter un giorno tornare alle loro case.
L’archimandrita tiene subito a precisare che non si tratta di un “conflitto” di matrice religiosa ma territoriale perché l’obiettivo è quello di strappare al popolo la terra e cancellare una presenza storica. Per questo, hanno preso di mira e attaccato chiese e cimiteri, i monumenti storici. Hanno strappato ogni segno di scrittura e appartenenza alla cultura armena. Hanno addirittura colpito e distrutto la cattedrale di Cristo San Salvatore di Ghazanchetsots, nella citta di Shushi, luogo simbolo della cristianità armena sin dal XIX secolo. L’appello di padre Hakobyan è forte: “salvate il nostro patrimonio e le nostre Chiese. Fanno parte di tutto ciò che siamo”. La religione è da sempre una “componente fondamentale dell’identità armena”. Il paese è sempre stato una terra di passaggio e di confine ma è stata la Chiesa a mantenere forte e solda l’identità e la cultura armene. Colpirle oggi significa anche cancellare una storia e l’esistenza stessa di un popolo.
“Il mondo ha giustamente condannato la Russia per l’invasione in un Paese indipendente. Ora che l’Azerbaigian lo sta facendo con gli armeni, il mondo sta zitto e dice che va bene”, osserva l’archimandrita. “Dov’è la verità? E quali sono gli interessi per sottacere la giustizia”.
Il quadro è complesso. La Turchia e l’Iran sono impegnate con la guerra in Medio Oriente. La Russia è interessata a consolidare e proteggere la sua “geografia” dei passaggi di gas e petrolio verso l’Europa. “Cosa ha l’Armenia?”, chiede padre Hakobyan. “Niente, se non la sua identità e la sua storia”. “Siamo rimasti soli”. Solo Papa Francesco ha saputo pronunciare parole chiare. L’ultimo appello – molto apprezzato – lo ha lanciato parlando ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la santa sede l’8 gennaio scorso. “È urgente trovare una soluzione alla drammatica situazione umanitaria degli abitanti di quella regione”, ha detto il Papa, “favorire il ritorno degli sfollati alle proprie case in legalità e sicurezza e rispettare i luoghi di culto delle diverse confessioni religiose ivi presenti. Tali passi potranno contribuire alla creazione di un clima di fiducia tra i due Paesi in vista della tanto desiderata pace”. Gli fa eco oggi l’archimandrita: “Il mondo – dice – non può chiudere la bocca di fronte a quanto sta accadendo e celare la verità. La giustizia non può rimanere ostaggio degli interessi. Questo silenzio renderà le guerre più prepotenti e a quel punto nessuno riuscirà più a fermarle”.