Salario minimo. Il no del Parlamento

Quella scelta dalla maggioranza è un’opzione alternativa che in sostanza punta a estendere a tutti i lavoratori i principali contratti collettivi

Salario minimo. Il no del Parlamento

Il salario minimo non si farà. La proposta di legge presentata alla Camera dalle opposizioni – per una volta convergenti – è stata infatti svuotata e rovesciata dalla maggioranza attraverso un emendamento con cui si delega il governo a regolare la materia. Una volta che anche il Senato avrà approvato la legge, l’esecutivo avrà sei mesi per emanare i decreti attuativi con l’obiettivo di arrivare a un’“equa retribuzione” attraverso il potenziamento della contrattazione collettiva. Sui decreti esprimeranno il loro parere le commissioni parlamentari competenti e quindi il Consiglio dei ministri li adotterà in via definitiva. Quella scelta dalla maggioranza è un’opzione alternativa che in sostanza punta a estendere a tutti i lavoratori i principali contratti collettivi. A prescindere dalla singolarità dell’operazione parlamentare – una sorta di “ribaltone” con cui ancora una volta le Camere rinunciano a legiferare direttamente a vantaggio del governo – si tratta di un’opzione che ha una sua fondatezza, tanto da essere sostenuta anche da un sindacato come la Cisl. Ma a questo punto si finisce per rinviare ulteriormente nel tempo un problema che è divenuto drammatico: quello del lavoro “povero”. Tutte le ricerche lo rilevano concordemente: quando il lavoro è precario e sottopagato, si può essere in situazione di disagio socio-economico anche avendo un’occupazione. Del resto, se il salario minimo è presente in 22 Paesi Ue su 27, ci sarà pure un buon motivo. Pregiudiziali ideologiche a parte, non si vede perché salario minimo e potenziamento della contrattazione collettiva non possano coesistere in un Paese che ha un problema cronico e generalizzato di bassi salari. Problema aggravato dall’inflazione, che pesa maggiormente sui redditi inferiori a causa della tipologia dei consumi: anche adesso che l’inflazione comincia a scendere, a resistere di più sono proprio i prezzi del cosiddetto “carrello della spesa”. “Con l’inflazione le vostre retribuzioni reali sono scese del 7-8%, cosa che non è avvenuta nei Paesi che hanno un minimo e lo hanno aggiustato per mitigare la perdita di potere d’acquisto”, ha sottolineato il commissario europeo per il lavoro, Nicola Schmit. Che ha aggiunto: “Avere salari adeguati non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di sviluppo. La produttività è importante, ma aumentare i salari la può spingere. Arrivo a dire che la produttività resta bassa proprio perché lo sono i salari, e questo spiega perché l’Italia cresce così poco da decenni”. Difficile dargli torto. Anche perché nel frattempo gli utili delle società industriali e terziarie sono cresciuti del 26,2%, mentre i lavoratori hanno registrato una perdita di potere d’acquisto intorno al 22% (rilevazioni Mediobanca per il 2022). E manco dirlo sono state le Regioni meridionali quelle più colpite: negli ultimi quindici anni le retribuzioni lorde reali per addetto sono diminuite del 3% nel Centro-Nord e del 12% nel Sud (dati Svimez). Non possono quindi sorprendere l’emorragia demografica del Mezzogiorno e la crescente migrazione di giovani qualificati verso il Nord (e l’estero). Anche per questo lascia molto perplessi il ritorno di ipotesi analoghe alle “gabbie salariali”, che trovano peraltro un supporto nella legge in corso di approvazione laddove si parla delle “diversificate necessità derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alle differenze dei costi su base territoriale”. C’è il rischio di nuove divisioni e disuguaglianze in una fase in cui sarebbe invece necessario incrementare la coesione sociale.

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Fonte: Sir