Sfruttamento e disequilibrio. Certe risorse naturali hanno limiti quantitativi o cicli biologici incompatibili con la nostra avidità

Affidiamoci alle innovazioni tecnologiche prima ancora che alla diffusione di una coscienza collettiva che deve essere rapida e globale, se vogliamo invertire certi trend

Sfruttamento e disequilibrio. Certe risorse naturali hanno limiti quantitativi o cicli biologici incompatibili con la nostra avidità

Ok, il pianeta Terra è vasto. Ok, abbiamo scoperto che i suoi quasi 8 miliardi di abitanti non sono eccessivi come qualcuno continua a sostenere, e con un po’ di razionalità e tecnologia si possono benissimo sfamare tutti. Ma che la situazione sia in equilibrio, non lo sostiene più nemmeno il peggior sfruttatore di risorse naturali.

C’è un problema strutturale e uno contingente. Quello strutturale riguarda il fatto che tre di quegli otto miliardi di abitanti si concentrano in una fettina di pianeta che va dal Pakistan al Giappone, passando per India, Bangladesh, Indocina, Indonesia, Filippine, Cina (costiera) e le due Coree. Mentre mezza Asia è poi completamente vuota. Inoltre la parte ancora intatta del pianeta – l’Africa – è quella a maggior crescita demografica e a minor sviluppo tecnologico.

Il problema contingente è dato dallo sfruttamento eccessivo e rapidissimo di certe risorse naturali che hanno limiti quantitativi o cicli biologici incompatibili con la nostra avidità. Se la maggior parte della popolazione mondiale vive non lontano dal mare, giocoforza il pesce diventa una risorsa alimentare basilare per miliardi di persone, ancor più dei cereali.

I duecento milioni di tonnellate di pesce – un terzo delle quali finisce sulle mense cinesi – avrebbero già distrutto l’ecosistema marino, se non fosse che la metà del prodotto ittico arriva dall’acquacoltura: attività nella quale la Cina ha (per fortuna) il primato assoluto. La tecnologia e l’innovazione aiutano.

Rimane un fatto: se la costa tra Islanda e Canada un tempo era così ricca di merluzzi che sembrava di navigarci in mezzo, ora è praticamente spopolata. Il nostro Adriatico – un tempo pescosissimo – ora non garantisce il pescato sufficiente per mantenere flotte di pescherecci sempre più assottigliate. E i brevi fermo-pesca estivi non risolvono nulla: dicono che ci vorrebbero almeno 5 anni di blocco totale, per rianimare il morente mare.

E gli alberi? Senza i quali, addio specie umana. Eppure un recente raid tra le due sponde oceaniche del Sudamerica, attraverso la selva amazzonica, ha rivelato che di selva non ce n’è proprio più per centinaia di chilometri: tutta disboscata per far posto a pascoli che servono ad allevare bovini la cui carne finirà – per metà – ad alimentare… cani e gatti domestici. Favorendo pure la desertificazione.

E le zone umide, le paludi, gli acquitrini, insomma quelle aree stabilmente o temporaneamente invase dall’acqua che sono le più grandi sequestratrici naturali di CO2 e le incubatrici di ogni specie animale e vegetale di questo pianeta? Bonificate per ricavare coltivazioni, per costruire abitazioni, per trasformarle in sterili pascoli, per “eliminare le malattie”… E, con esse, il nostro futuro se non impariamo a rispettare la casa che ci ospita.

Affidiamoci dunque alle innovazioni tecnologiche prima ancora che alla diffusione di una coscienza collettiva che deve essere rapida e appunto globale, se vogliamo invertire certi trend. Acquacoltura, ma anche colture che sprecano meno terra e soprattutto meno acqua; varietà vegetali meno attaccabili da parassiti per una maggiore produttività e un minor consumo di fitofarmaci; lo sviluppo di fonti proteiche alternative e della “carne coltivata” che non è né plastica, né insalubre e permetterà la riduzione degli enormi allevamenti estensivi; la meccanizzazione delle pratiche agricole estesa ai territori più poveri. E tanto altro ancora.

E non manchino quelle leggi – nazionali, comunitarie, internazionali – che impediscano di sfruttare biecamente le risorse e il lavoro altrui, a beneficio di pochi. Come quei maglioncini in pregiati filati che a New York si vendono a 9mila dollari l’uno, mentre i produttori peruviani faticano ad intascarne 250.

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Fonte: Sir