Vitalizi. Ci siamo quasi. Forse

La Camera dei Deputati ha approvato la delibera sui vitalizi degli ex parlamentari. In Senato si attendono ulteriori verifiche, poiché sussiste un dubbio di legittimità costituzionale.

Vitalizi. Ci siamo quasi. Forse

L’argomento più evocativo per stuzzicare l’elettorato, quando si parla di politica e privilegi, è senza ombra di dubbio quello dei vitalizi, ovvero la rendita a fine di un mandato parlamentare. Anche perché proprio una certa parte del giornalismo italiano ha contribuito a enfatizzare il concetto mediatico di “casta politica”. Di conseguenza per la fetta consistente di consenso elettorale che si rifà a queste analisi la rimodulazione di tutto ciò che riguarda compensi, vitalizi e benefit dei parlamentari – o comunque di chi fa politica retribuita – è sacrosanto. E lo è – “casta” a parte – anche per tutti gli italiani (il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, ha parlato di «soldi che vengono sottratti alla politica per essere restituiti ai cittadini»).

Va premesso che i vitalizi non esistono più da anni, essendo stati aboliti dal Governo Monti: tutto il dibattito in corso riguarda solo quelli relativi agli ex parlamentari.

I fatti: lo scorso 12 luglio l’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati ha dato l’ok alla delibera del presidente Roberto Fico (11 i sì, 9 della maggioranza, 1 del Pd e 1 di Fdi, astenuta Forza Italia) che, ricalcolando gli assegni percepiti in base al metodo contributivo, “alleggerisce” i vitalizi degli ex deputati. Una misura dal valore simbolico enorme che, senza dubbio, appare come la prima grande vittoria – almeno sulla carta – del Movimento 5 Stelle. 
Tecnicamente la delibera sarà effettiva a partire dal 1° gennaio 2019: la mannaia coinvolge al momento solo 1.240 ex deputati, perché al Senato la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati prima di replicare il provvedimento vuole accertarsi che la modifica introdotta non sia vanificata – o annullata – da problemi di costituzionalità. Il presidente pentastellato Roberto Fico ha comunque dichiarato esultante: «Non temo i ricorsi, la Carta è stata rispettata».

Oltre al dubbio sulla liceità di un provvedimento che tocca diritti acquisiti e che potenzialmente potrebbe influire anche sugli altri meccanismi di calcoli delle pensioni – anche in linea di fattibilità sugli assegni dei comuni mortali – sarà interessante quantificare il risparmio reale introdotto dalla normativa che, secondo il vicepremier Luigi Di Maio, gli italiani aspettavano da sessant’anni.

E qui i dubbi e le incertezze diventano più palpabili perché l’ufficio di presidenza della Camera ha messo nero su bianco che – almeno per ora – la spesa complessiva sul bilancio di Montecitorio resterà immutata: «Il Collegio dei questori ha tenuto conto dell’elevata probabilità che la deliberazione in questione venga fatta oggetto di impugnazione in sede giurisdizionale e che un eventuale annullamento della deliberazione medesima possa pregiudicare i citati effetti di risparmio, determinando maggiori oneri per il bilancio della Camera conseguenti al ripristino totale o parziale dell’ammontare originario delle prestazioni previdenziali».

Stando così le cose, in un quadro di assoluta incertezza che ha spinto come detto la presidente del Senato Casellati a temporeggiare, i 43 milioni di risparmio annuo verranno accantonati come fondo cautelativo in vista di eventuali ricorsi.

I soldi verranno pertanto congelati fino al 2021; nel frattempo l’altro vicepremier Matteo Salvini mette le mani avanti: «Chi vuole fare ricorso si vergogni». Come impatterà nelle tasche degli ex deputati il ricalcolo voluto dal governo “giallo-verde”?

Il vitalizio minimo per gli ex deputati sarà di 980 euro mensili, contro i 780 euro previsti dalla proposta di legge sul reddito di cittadinanza. Per 517 ex parlamentari il taglio sarà tra il 50 e l’80 per cento del vitalizio, per 610 tra il 20 e il 50 per cento, per un centinaio di entità inferiore o addirittura nulla.

Per Tito Boeri, presidente dell’Inps, si tratta di «un provvedimento simbolico», mentre per il premier, il professor Giuseppe Conte, il provvedimento «è un bel segnale per il Paese».

Questioni di costituzionalità a parte, tralasciando anche il reale risparmio per le casse dello Stato, il grande punto interrogativo che rimane sullo sfondo coinvolge i lavoratori comuni più che la “casta”. Il perché è presto detto: rimettere in discussione i diritti pregressi potrebbe – per alcune categorie e per alcuni profili – rappresentare un cambio di paradigma giuridico di cui non si conoscono gli effetti potenziali.

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