Adolescenti in didattica a distanza? Pellai: “Una delusione che rischia di farli crollare”

Da una parte la necessità di arginare il virus, dall'altra il bisogno degli adolescenti di “tornare a muoversi nella loro dimensione, tra trasgressione e senso del limite. Hanno saputo accettare le regole e adattarsi alla scuola dei protocolli. Ma ora rischiano di diventare tristi: la scuola è fattore di protezione, non possiamo rendere di nuovo i giovani invisibili”

Adolescenti in didattica a distanza? Pellai: “Una delusione che rischia di farli crollare”

I giovani stanno cambiando: quelli che parlavano di tutto e di niente, oggi parlano di virus, di quarantene, di tamponi. Alcuni sono informatissimi, sempre aggiornati – complici i social – sull'andamento dei contagi. E la domanda che si fanno è più pesante di loro: che succederà domani? Potremo ancora fare quello che facciamo oggi? E' un'adolescenza che sta cambiando linguaggio, abitudini, naturalmente volto, con il viso in parte coperto a nascondere sorrisi, rossetti, apparecchi. A volte si salutano abbracciandoli, o battendosi il cinque, dimenticando per un attimo che non si può fare. O forse rivendicando, con questo gesto, il loro bisogno e il loro diritto di trasgredire. Dalla prossima settimana, tanti di loro torneranno a fare scuola da casa, chi esclusivamente, chi in parte. Perderanno l'abitudine che a fatica avevano ripreso: alzarsi la mattina presto, vestirsi (bene= e uscire di casa per andare a scuola. La sveglia potrà essere puntata una o due ore più avanti e non dovranno sforzarsi di scegliere i vestiti: da casa, si può fare scuola anche in pigiama. “Una svolta”, per chi faceva più fatica la mattina. Ma sarà proprio così? Quale impatto ha avuto la pandemia sulle loro vite? Quale continua ad avere e quale avrà, ora che la scuola si trasferisce temporaneamente sul monitor per alleggerire il carico di autobus e Asl? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell'età evolutiva, esperto di quella “età dello tsunami” che è l'adolescenza e recentemente autore di “Mentre la tempesta colpiva forte. Quello che noi genitori abbiamo imparato in tempo di emergenza” (De Agostini, settembre 2020)

La scuola che ha accolto i ragazzi a settembre, è certamente una scuola faticosa e “scomoda”: la didattica a distanza non sarà un sollievo per loro?

Certamente i ragazzi hanno avuto modo di sperimentare sulla loro pelle la differenza tra scuola pre-Covid e scuola con il Covid: hanno trovato, a settembre, una scuola piena di limiti, di cornici, che sicuramente fa sentir loro la nostalgia della scuola che hanno frequentato fino a marzo scorso, dove tutta l'esperienza della loro crescita era promossa e accolta. Al tempo stesso, però, nella ripartenza hanno anche visto come la scuola, con tutte le limitazioni imposte dal virus, aveva un grande valore rispetto alla scuola a distanza. Quindi se ne sono appropriati, in questo primo mese, con la flessibilità e l'adattabilità che appartiene alla loro età. Ora il ritorno, almeno in parte, della didattica a distanza, sarà magari più confortevole per loro dal punto di vista delle esigenze pratiche e fisiche, ma è sicuramente meno soddisfacente, li nutre molto meno, li lascia più soli, dispersi, distratti.

Una delusione insomma?

Profondamente, sì: per loro, ma anche per tutti noi che tifiamo per la loro crescita, come pure pe il corpo docente, che ha fatto un enorme lavoro per la prevenzione, la riduzione del rischio, l'applicazione dei protocolli: lavoro che peraltro ha dato ottimi risultati. E delude soprattutto il fatto che la scuola torni a distanza perché andare a scuola con i mezzi pubblici è rischioso. Questo lascia rattristati. Ma se siamo al tracollo sanitario e questo è l'ordine che ci viene dato, obbediamo. Il vissuto è però di una grande fatica e tristezza, soprattutto perché siamo consapevoli di quanto la scuola rappresenti il fattore di protezione per eccellenza.

Tristezza, dice. Secondo lei gli adolescenti, a contatto con il virus, si stanno “intristendo”?

Sì, è inevitabile questo rattristamento. L'adolescenza è infatti un tempo che per definizione si muove tra bisogno di andare oltre qualsiasi limite, sperimentandosi anche nella zona della trasgressione, e il bisogno di costruire il senso del limite dentro di sé, aderendo a un sano principio di realtà. Quando però questo accade, come sta accadendo da mesi, in un contesto dominato dalla patologia e dalla paura di ammalarsi, in cui tutto diventa confine, allora viene compromesso anche tutto quel lavoro auto educativo tra trasgressione e autoregolazione. E' quello che viene chiesto in questo momento ai giovani: di confrontarsi con una dimensione del limite che è contro la loro natura. Pensiamo al distanziamento, che impedisce il contatto fisico, limita le esplorazioni, tutti aspetti che sono parte fondamentale dell'adolescenza. E come su una pianta che è sempre cresciuta in una serra, dotata di ogni conforto e regolarmente annaffiata, fosse improvvisamente trasferita in mezzo al deserto, in cui non c'è acqua e il sole batte sempre, asciugando e prosciugando.

Cosa si può fare, allora, per evitare che i giovani “appassiscano”?

Occorre generare un'alleanza di gruppo, trovare una dimensione di espressione e protagonismo per loro, anche in un tempo così confinato e limitato. La mia raccomandazione è che i giovani non tornino ad essere invisibili com'è accaduto nel lockdown. In questo, la scuola è un fattore di protezione per eccellenza: perché nel momento in cui entra a scuola, il ragazzo è protagonista, mentre se sta chiuso nella sua stanza entra in una dimensione di ritiro sociale, nella quale rimane obbediente passivo. E non è certo questa la posizione naturale dell'adolescente. Per questo dobbiamo immaginare che i giovani in questa fase siano protagonisti attivi, perfino condivisori di un progetto che li faccia sentire parte di un modello di solidarietà collettiva. Devono avere insomma un ruolo specifico nella sfida che l'umanità sta affrontando.

C'è chi dice che non siano capaci, che siano i primi a trasgredire le regole, almeno quando non sono sotto l'occhio vigile degli adulti...

Non è vero. E' vero però che più sono lasciati soli e disorientati, più trova spazio la trasgressione. Abbiamo l'esempio dei centri estivi, dove gli adolescenti, spesso coinvolti come educatori, hanno dato una prova eccellente. Sicuramente migliore dei tanti, non adolescenti, che si sono dedicati alla movida. Poi certo, non possiamo fare generalizzazioni: nel gruppo degli adolescenti sono rappresentate tutte le tipologie, ma questo accade anche nel gruppo degli adulti. I negazionisti non sono certo adolescenti. Più penseremo all'adolescenza come a un'età che costruisce, più la renderemo costruttiva. Più renderemo i ragazzi responsabili, consegnando loro spazi di autonomia, più attiveranno meccanismi di responsabilità condivisa. Viceversa, più sottrarremo loro spazi, più andranno a prenderseli con una modalità non proattiva ma trasgressiva. Il meccanismo più efficace è quello dell'educazione tra pari: è dentro il gruppo che sentono la responsabilità collettiva, come hanno dimostrato di saper fare nel tempo del lockdown.

Per citare il suo ultimo libro, cosa “noi genitori abbiamo imparato in tempo di emergenza”?

Che i nostri figli adolescenti sanno farsi invisibili, obbedienti e passivi, ma la deriva è depressiva e di ritiro sociale, come ci dimostra l'aumento delle patologie psichiatriche tra i giovani come tra gli adulti. Se li richiudiamo in casa pensando che possano farcela, chi cammina sul filo non ce la farà. Chiudere le scuole perché il sistema dei trasporti non funziona è una pugnalata alle spalle. Non ce lo possiamo permettere adesso: noi abbiamo più strumenti e la malattia ha altre caratteristiche: per la loro crescita bisogna rischiare di più.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)