Arena di pace con papa Francesco. Le parole di don Luigi Ciotti: avverso all’indifferenza

Don Luigi Ciotti «Tocca a te fare qualcosa» gli disse, a 17 anni, un senzatetto. Da quel momento la sua vita rivolta agli emarginati

Arena di pace con papa Francesco. Le parole di don Luigi Ciotti: avverso all’indifferenza

L’ enciclopedia, alla voce “don Luigi Ciotti”, dice: sacerdote nato nel 1945, «ispiratore e fondatore dapprima del Gruppo Abele, come aiuto ai tossicodipendenti e altre varie dipendenze, quindi dell’associazione Libera contro i soprusi delle mafie in tutta Italia e nel mondo». Don Luigi Ciotti tornerà a Verona il 18 maggio per partecipare all’Arena di Pace; nel frattempo ha fatto una “capatina” in riva all’Adige nei giorni scorsi – ospite dal vescovo Domenico Pompili e continuamente sorvegliato da due poliziotti della scorta – per parlare di legalità (e altro) in un istituto superiore scaligero. È stato un piacere, ma soprattutto una lezione di vita ascoltare questo sacerdote che da oltre mezzo secolo ne combina di tutti i colori. E alla domanda “che colori le mancano per completare il suo arcobaleno?” ci ha risposto che gli piacerebbe molto che non ce ne fossero più, ma purtroppo non è così, «la vita ci pone di fronte continuamente nuove sfide: l’importante è vivere questa vita pienamente, e non da spettatori disinteressati». Qui sotto sono riportati frammenti di una lunga conversazione che ha aggirato gli aspetti più mediaticamente noti, per cercare di capire chi sia don Pio Luigi Ciotti al di là delle righe di un’enciclopedia.

Quel barbone. «Andavo a scuola in tram, avevo 17 anni e volevo prendere il mio diplomino di radiotecnico. Alla fermata, vedevo un barbone – allora si chiamavano così – seduto su una panchina, sempre con un libro in mano e intento a sottolinearlo con una matita rossa. Un giorno mi avvicino e gli chiedo se volesse un caffè. Mi ignora completamente. Me ne vado, ma qualcosa ha cominciato a ronzarmi in testa… Così il giorno dopo c’ho riprovato, e il giorno dopo ancora e così per dodici giorni. Alla fine quel signore l’ho conosciuto, lui e la sua terribile storia di medico del paese che aveva perso tutto e non aveva saputo reagire allo shock. Eravamo davanti a un bar di Torino, mi indica alcuni ragazzi che entravano e rapidamente uscivano. Da medico aveva capito che usavano mescolare anfetamine acquistate in farmacia con un superalcolico per “sballarsi”. Mi disse: “tocca a te fare qualcosa”. Una mattina scesi dal tram e non lo vidi più: era morto. Da lì nacque il mio impegno personale, e poi di altre persone, per affrontare un problema come la nascente tossicodipendenza. Sulla strada, in mezzo alle persone, cercando di capirle e non semplicemente di punirle come avveniva con le leggi di allora. Il problema non è la droga, ma i motivi che spingono le persone a usarla. Quindi l’arrivo dell’eroina (siamo nella seconda metà degli anni Settanta), le morti per overdose, lo sforzo di far uscire le persone dalle dipendenze, la battaglia per far nascere i Sert…».

Radici venete. «Sono veneto, anche se a cinque anni i miei emigrarono a Torino per cercare di guadagnarsi il pane. Sono del Cadore, di Pieve per l’esattezza. Le Dolomiti sono il mio orizzonte, sono iscritto al Cai locale e ho detto che, se possibile, mi seppelliscano nel cimitero di Pieve davanti alle mie montagne. Tra l’altro a Pieve hanno eletto sindaco una giovane donna di origini albanesi. L’ho chiamata per complimentarmi, un altro segno di un mondo che cambia».

Davanti a Lui. «Cosa dirò a Dio il giorno che mi chiamerà nella sua Casa? Un grande grazie. Anzitutto per avermi permesso di essere prete, un dono enorme per la mia vita: è stato un vero privilegio essere chiamato a svolgere questo servizio. E poi per tutto quello che mi ha dato in questi anni, per i miei genitori, per tutti gli ultimi che ho incrociato nel corso del tempo e che sono stati la mia più grande ricchezza. Mi creda: mi hanno cambiato la vita».

Vocazione. «La mia vocazione? Tardiva e anomala rispetto a quei tempi. Appunto fin da ragazzo mi ero immerso nel mondo degli ultimi, della strada, dei disperati, delle prostitute. L’allora vescovo di Torino, Michele Pellegrino (un gigante, mi creda, una persona meravigliosa) creò il primo corso in Italia per le vocazioni adulte. Mi sono detto: può essere la mia strada. L’11 novembre del 1972 mi ordinò sacerdote davanti a un popolo “particolare” che assisteva alla celebrazione. Mi disse: “La tua parrocchia sarà la strada” e mi aiutò e difese sempre, perché camminando sulla strada rischi di pestare qualche piede…».

L’Aids, la mafia… «Arrivò il tempo dell’Aids, nessuno si occupava degli “infetti” che non avevano cure e morivano da soli. Quanti ne ho accompagnati nelle loro ultime ore! Per fortuna arrivarono farmaci che non guariscono, ma almeno aiutano a contenere la malattia, ora ci si può convivere. Parlavo di questo e delle tossicodipendenze in Sicilia nel 1992, quando conobbi il giudice Giovanni Falcone: pochi giorni dopo la mafia lo assassinò. Ed ero a Palermo quando arrivò la notizia dell’assassinio di Paolo Borsellino. Da questi eventi non ci si poteva sottrarre: è iniziata lì la lotta contro le mafie, la nascita di Libera, la creazione di associazioni e di attività che vivono dentro la legalità e sottraggono spazio ai malavitosi».

Legalità e legalismo. «La legalità è importantissima, ma deve essere un concetto “pieno”, cioè il convinto rispetto delle regole, senza il quale non c’è sviluppo umano e sociale. Altra cosa è il legalismo, quel rispetto non compreso e che determina l’aggiramento della norma appena si può».

Papa Francesco. «Questo papa è un dono immenso di Dio. Continua come un martello a spiegare ai cristiani che devono “sporcarsi le mani”, mettersi in gioco, vivere pienamente la loro fede. Don Milani diceva che la parola di Dio è “urticante”, ci sollecita a non stare a guardare. Dio lo dobbiamo accogliere dentro di noi, dentro la nostra vita che ha tanti frammenti di Dio al suo interno. Francesco continua incessantemente a usare parole di pace in un mondo attraversato da 59 guerre e tanta indifferenza».

La “normalità”. «Dell’oggi mi spaventa questo andazzo per cui troppi problemi sono diventati “normalità”, l’anticamera dell’indifferenza. Ho cominciato a occuparmi di tossicodipendenze, è passato mezzo secolo e lei crede che oggi ci si droghi meno di ieri? Sicuramente c’è meno prevenzione, meno attenzione, meno voglia di affrontare questo mostro. È diventato “normale”».

Il dolore degli affetti. «Le fragilità che più mi hanno colpito? In assoluto la disperazione di un genitore, di un affetto di fronte a un lutto, uno smarrimento, una caduta di chi amano. Un dolore enorme, ti senti quasi impotente, non riesci proprio ad “abituarti”».

La classe politica. «Ma cosa fanno o pensano questi politici? Ma dove vivono? Conoscono la vita delle persone? Si sono mai immersi nei loro problemi? Mi sembrano lontani anni luce dalle persone, oggi più che un tempo. Sono sconcertato». La verità è che don Ciotti, per ragioni di intervista, sembra parlare sempre in prima persona. Invece dall’inizio alla fine usa il “noi”, che è non è un plurale maiestatis, «ma la consapevolezza che io sono una persona limitata che non avrebbe realizzato nulla senza l’aiuto, la collaborazione, la forza di tante altre persone. E il fatto che siano cresciute di motivazione e di numero mi fa sentire tranquillo per il futuro, quando io avrò finito di fare la mia piccola parte».

Arena di pace, gli appuntamenti del pontefice

La visita di papa Francesco il 18 maggio a Verona sarà accompagnata da un comune denominatore, “Giustizia e pace si baceranno”, tratta da un’espressione del Salmo biblico 85. Uno degli eventi più attesi sarà Arena di pace, che si svolgerà dalle 9 alle 12.30: il pontefice parteciperà per circa un’ora. Alle 15 si svolgerà la concelebrazione eucaristica prefestiva di Pentecoste allo stadio Bentegodi. Per entrambi gli eventi pubblici, sono ancora disponibili i biglietti: www.visitapapa. chiesadiverona.it

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