Classe dirigente cercansi. Il leaderismo è figlio del populismo

Dal punto di vista culturale, il leaderismo attuale è figlio della stagione del populismo

Classe dirigente cercansi. Il leaderismo è figlio del populismo

I leader politici – veri o sedicenti tali – non mancano nel nostro Paese. Forse ce ne sono anche troppi, ma con l’aria che tira nel mondo in tema di pluralismo è meglio sbagliare per eccesso che per difetto. Sulla qualità di questi leader ci sarebbe molto da dire, tanto più se si azzardano confronti con le fasi precedenti della non lunghissima vicenda della Repubblica, soprattutto da quando si è esaurito per motivi anagrafici il bacino di coloro che di questa Repubblica sono stati i padri, legittimi o naturali, se si concede la battuta. Ma la storia va avanti e comunque si tratta per definizione di una materia opinabilissima. Mentre è difficilmente contestabile che l’Italia soffra di una grave carenza di classe dirigente. Lo vediamo persino dalle cronache quotidiane e non è soltanto questione di qualche gaffe di troppo (anche se l’andazzo ha superato il livello di guardia). Va pur detto che il concetto di classe dirigente a rigore non è riducibile alla sfera politica in senso stretto, ma in questa sede è proprio al ceto politico che si fa riferimento, soprattutto perché è in questo ambito che sono in corso i fenomeni più rilevanti. Che la politica moderna abbia bisogno di leader è un dato di fatto consolidato, fare battaglie di retroguardia è del tutto inutile. Ma i leader non bastano a governare i sistemi democratici. L’enorme e sempre crescente complessità dei processi politici, economici e sociali esprime da un lato un’esigenza di guida unitaria e di semplificazione, dall’altro richiede un insieme di competenze e di articolazioni decisionali, di relazioni e di interlocuzioni, che non possono essere ricondotte a una sola persona. E per fortuna, bisognerebbe aggiungere.
Dal punto di vista culturale, il leaderismo attuale è figlio della stagione del populismo, con la verticalizzazione del rapporto tra il “capo” e il “popolo”, lo smantellamento delle istanze di mediazione e la programmatica negazione del valore delle competenze. Dal punto di vista politico-istituzionale, la sua radice è nella crisi dei partiti e nello svuotamento del ruolo del Parlamento. Due elementi tra loro collegati perché è tutto il sistema della rappresentanza a essere messo in discussione e con esso la capacità di selezionare una classe dirigente politica adeguata alle sfide che abbiamo davanti. Senza luoghi di confronto e di partecipazione reale, per di più in presenza di un sistema elettorale a liste bloccate, la scelta del personale politico risulta affidata a un meccanismo di cooptazione dall’alto in cui il criterio prevalente è quello della vicinanza/fedeltà al leader. Il che non esclude in assoluto che possano emergere comunque personalità di rilievo, ma in tutta evidenza non favorisce un percorso virtuoso. Lo dimostra anche il rapporto con le leadership locali che si sono sviluppate dopo l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione. Una parte importante della classe dirigente politica che potrebbe rappresentare una risorsa per il Paese ma che in molti casi viene percepita in competizione con i leader nazionali e resta quindi confinata nel territorio di origine, puntando tutt’al più a moltiplicare il numero dei mandati. Purtroppo la piega assunta dal dibattito sulle riforme istituzionali, tutto centrato sulla figura del premier e dimentico del ruolo del Parlamento, così come la prospettiva dell’autonomia differenziata, sembrano destinati ad acuire questi problemi.

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Fonte: Sir