Di nuovo lockdown? “Non per i bambini, lasciamoli uscire”. Appello di Tonucci

Il pedagogista e fumettista Francesco Tonucci, fondatore della Città dei bambini, si appella alle istituzioni: “La scuola non basta e così com'è non va bene: le tecnologie devono servire per ascoltare i bambini”. E rilancia: “Prima ancora del diritto all'istruzione, sia garantito il diritto al gioco. Regaliamo le strade ai bambini, sanno essere responsabili e rispettare le regole”

Di nuovo lockdown? “Non per i bambini, lasciamoli uscire”. Appello di Tonucci

Dimenticati e invisibili nel lockdown di primavera, rischiano di subire lo stesso destino con il lockdown della seconda ondata: “Ma i bambini hanno diritti sanciti da una Convenzione internazionale, dai quali non si può prescindere”. A rimarcarlo con forza, con l'autorevolezza e l'esperienza dei suoi 80 anni, la maggior parte dei quali trascorsi a difendere (in Italia e nel mondo) i diritti dell'infanzia, è Francesco Tonucci, pedagogista, ricercatore e fumettista, noto per aver fondato la rete delle Città dei bambini, che sta per pubblicare un nuovo libro, dedicato proprio alla pandemia e al suo impatto sulla scuola. “Sono anziano e tirerei volentieri i remi in barca”, confessa, ma da dirne ne ha ancora tante e venerdì sarà tra i relatori del Convegno “Didattiche” di Erickson, in programma online il 13 e 14 novembre.

Siamo nel pieno della seconda ondata della pandemia: rispetto alla prima, non le pare ci sia maggiore attenzione ai bambini e uno sforzo, almeno, di tenere le scuole aperte?
Innanzitutto, è evidente che una parte importante dell'interesse per l'apertura della scuola è estraneo alle finalità della scuola. La ragione principale per cui si chiede di non chiuderla è che non si sa come risolvere il problema dei genitori che devono lavorare. Se segretamente è questa la motivazione della battaglia, non ci porta lontani. Ma c'è un punto che mi rammarica ancora di più: mi pare che la scuola abbia risposto al bisogno di continuità, non prevedendo alcun cambiamento al suo interno, neanche di fronte al disastro mondiale. Lo dimostra lo slogan, allarmante: “La scuola non si ferma”. Questo ha voluto dire, nella maggior parte dei casi, che la scuola andava avanti con i suoi programmi, come se non fosse successo nulla. I bambini da una parte, chiusi in casa con i genitori, venivano bombardati di notizie e immagini spaventose, dall'altra continuavano a studiare Napoleone e la fotosintesi clorofilliana. E questo è il paradosso: io sono a favore della scuola aperta, ma la scuola deve sapersi trasformare. Avrebbe dovuto farlo già prima, noi esperti di educazione e pedagogia lo chiediamo da tempo, ma non siamo stati ascoltati, almeno qui in Italia. Se ci avessero dato ascolto, forse ora la scuola sarebbe più attrezzata anche per affrontare questa emergenza.

Al convegno Erickson parlerà proprio di questo: della “trasgressione del cambiamento”, per una nuova scuola. Cosa ha in mente?
La scuola frontale, quella in cui l'insegnante ha la sua classe seduta di fronte ad ascoltare, non funziona: lo denunciamo da tempo tutti noi che ci occupiamo di educazione. Il numero di alunni che non seguono, si annoiano, vanno malvolentieri a scuola è molto alto. Se si annoiano, i bambini e i ragazzi non imparano. Durante la pandemia sono uscite statistiche in base alle quali il 30% dei giovani italiani sono analfabeti funzionali: vuol dire che hanno imparato a scuola a leggere e scrivere, ma poi hanno smesso di usare queste competenze. Il che equivale, per me, a dire che non le hanno acquisite. La scuola che funziona è quella di cui parla la Convenzione dei diritti dei bambini, che ha una dignità giuridica più alta rispetto alle leggi ordinarie ma che continua ad essere inapplicata: l'articolo 29 dice chiaramente che l'educazione deve avere la finalità di favorire lo sviluppo della personalità e delle facoltà e attitudini mentali e fisiche di ciascuno, in tutte le sue potenzialità. Troppo spesso la scuola fa esattamente il contrario: chiede ai bambini e ai ragazzi di rinunciare alle loro attitudini per diventare bravi alunni. Ciò che ha più peso sono l'italiano e la matematica e questo vale per tutti: invece, se un bambino è portato per la danza, dovrebbe essere scoperto e valorizzato quel suo talento. E' questo il compito educativo dei genitori da un lato e della scuola dall'altro. Allora sì che la scuola avrebbe un altro valore e un'altra presa.

In pratica, come dovrebbe realizzarsi questo?
Per esempio, rinunciando all'aula come luogo di lavoro e trasformando tutti gli spazi in laboratori, tutti diversi e quindi capaci di sollecitare le diverse attitudini. E' una proposta che personalmente faccio da tempo, ma che in Italia raramente è stata accolta. Questa sarebbe, per esempio, una scuola più attrezzata anche di fronte all'emergenza sanitaria, perché utilizzerebbe molti più spazi, nel periodo in cui è necessario il distanziamento. Ora queste proposte sembrano perfino più credibili, eppure si sta approfittando dell'emergenza sanitaria per fare tutto il contrario: diminuire gli spazi, diminuire i movimenti, diminuire le autonomie.

Tanti ragazzi, soprattutto i più grandi, sono tornati alla didattica a distanza. E lo stesso potrebbe accadere anche per i più piccoli. E' possibile anche lì una “trasgressione del cambiamento”?
Non solo è possibile, è necessaria: la scuola sta utilizzando strumenti poderosi, come le tecnologie e le piattaforme, in maniera poverissima, per mettere seduti i bambini davanti a uno schermo, ad ascoltare la lezione e a fare i compiti. Ma queste piattaforme hanno delle potenzialità enormi, che dovrebbero essere valorizzate innanzitutto a scuola: noi, come Città dei bambini, le utilizziamo per convocare i Consigli dei bambini nelle circa 200 Città dei bambini sparse nel mondo. A marzo, ho inviato un video ai sindaci di queste città, chiedendo che convocassero subito questi Consigli, per ascoltare i bisogni e le proposte dei bambini nel difficile momento che stavano vivendo. A Latina, per esempio, i bambini hanno chiesto che fosse creata una piattaforma pubblica comune, a cui tutti potessero accedere, per incontrarsi, parlare, giocare: una sorta di piazza virtuale, in cui continuare a vivere quella socialità che la pandemia aveva interrotto. E' solo un esempio di come queste piattaforme possano essere usate per ascoltare i bambini, per farli parlare e giocare tra di loro. La scuola italiana pare non averlo capito e, anche a distanza, ripropone la lezione frontale. Altri Paesi, invece ci hanno dato ascolto.

Per esempio?
L'Argentina: in quei mesi, su richiesta del ministro dell'Educazione argentino, ho tenuto un incontro a cui hanno preso parte 250 mila persone. Ne è nato un libro di lavoro, “Saberes cotidianos”, che è stato pubblicato dal ministero stesso e proposto alle scuole e alle famiglie, per trasformare la casa in un laboratorio: una serie di idee perché la scuola entrasse nella quotidianità delle famiglie in quel momento e trasformare quel 'restare a casa' in un'opportunità di scoperta e di apprendimento attivo per i bambini. Anziché stare fermi davanti allo schermo ad ascoltare gli insegnanti, i bambini esploravano la casa, ne scoprivano le macchine, gli spazi, gli strumenti e imparavano a osservarli e utilizzarli.

Diceva che la scuola non basta e il diritto all'istruzione non è il primo ma il secondo...
Sì, a fronte di questa difesa strenua del diritto alla scuola, nessuno ha parlato e parla del diritto al gioco, che è il principale sia dal punto di vista della Convenzione sia dal punto di vista della scienza, che lo riconosce come primo strumento di apprendimento e sviluppo. Una società preoccupata del benessere delle future generazioni è una società che si preoccupa del gioco. O meglio ancora, non se ne occupa affatto e lo lascia come competenza ai bambini. Il gioco è talmente importante che meno gli adulti se ne occupano e meglio è. Per il gioco, il verbo fondamentale è lasciare: lasciare uscire i bambini, lasciare il tempo libero, lasciare che scelgano dove giocare, lasciare che rischino. Questo è in netto contrasto con le modalità moderne di dedicare al gioco dei bambini degli spazi riservati, recintati, rigorosamente orizzontali e quasi sempre supervisionati da adulti. I bambini devono giocare da soli e dappertutto. Invece, tanto più durante la pandemia, si tutelano diritti irrinunciabili come quello a procurarsi il cibo o i beni di prima necessità, ma non si arriva a pensare che i bambini hanno il diritto e il bisogno di frequentare altri bambini e giocare, anche con le nuove regole. Avrei apprezzato che il governo dicesse ai suoi esperti “Su questo diritto non vi chiedo 'se', perché è irrinunciabile: ditemi semplicemente 'come'”.

Questo gioco libero e ovunque sembra incompatibile con le regole imposte dalla pandemia... Troppo rischioso...
Non lo è affatto: è molto più pericoloso l'abuso di videogiochi e lo sappiamo bene. I bambini sono più bravi a rispettare le regole quando sono da soli, piuttosto che quando sono con un adulto. Hanno già imparato a giocare stando distanti e con la mascherina. La cosa importante non è impedire cose ai bambini, ma fare in modo che capiscano le ragioni serie per non poterlo fare. Vale per l'attraversamento della strada, come per il distanziamento fisico. Per questo i bambini devono poter uscire e per questo abbiamo proposto, in alcune delle nostre città, di donare le strade ai bambini, durante il lockdown. E ora rilanciamo questa proposta: lasciamo che i bambini escano e giochino, nel rispetto delle regole ma senza limiti di spazio e senza essere sorvegliati. E se c'è il lockdown, le strade siano per loro.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)