Il Medioriente tra potere marittimo e giustizia internazionale: i banchi di prova dell’Occidente

La necessità di salvaguardare la rotta del Mar Rosso non lascia più dubbi sulla portata globale della sfida. Essa chiama in causa l’erosione del primato Usa nel dominio sui mari

Il Medioriente tra potere marittimo e giustizia internazionale: i banchi di prova dell’Occidente

Gli sviluppi assunti nei giorni scorsi dalla crisi mediorientale pongono l’Occidente collettivo dinanzi a ulteriori scelte critiche, con implicazioni che superano l’immediato contesto regionale.

La necessità di salvaguardare la rotta del Mar Rosso non lascia più dubbi sulla portata globale della sfida. Essa chiama in causa l’erosione del primato Usa nel dominio sui mari, ormai ampiamente insidiato dal potenziale navalista della flotta cinese. Il superamento del divario quantitativo non è il solo dato a preoccupare quanti, al Pentagono, lamentano la privatizzazione del comparto bellico dell’industria nazionale, di contro alla military-civil fusion amministrata dal governo di Pechino. Sicché riaffermare la supremazia nelle acque arabiche è diventato cruciale, per esibire la tenuta della talassocrazia statunitense, perno di un potere marittimo in grado – come tutti gli “imperi oceanici” della storia – di controllare le risorse strutturali che transitano per i flussi del mercato mondiale.

Anche questo spiega la pressione di Washington sulle titubanze europee rispetto a un decisivo appoggio alla Prosperity Guardian contro gli Houthi. La settimana scorsa Francia, Germania e Italia hanno trovato una soluzione di compromesso per corrispondere alle richieste della Casa Bianca. La missione Aspides targata Ue eviterebbe infatti di porsi sotto il diretto comando statunitense, che prevede regole d’ingaggio nettamente offensive contro lo Yemen. Ma poiché le altre cancellerie continuano a tentennare, le unità navali dispiegabili dai tre Paesi sarebbero di ben poco aiuto. Oltretutto, l’emorragia di forniture militari all’Ucraina continua a costituire un handicap inaggirabile. Per risultare efficace, l’iniziativa dovrebbe tradursi in assetti d’appoggio ai raid angloamericani che tuttavia contraddirebbero la configurazione difensiva ostentata da Bruxelles anche per non aggravare le fibrillazioni nelle società europee, agitate da delusioni e preoccupazioni per le ricadute delle posture sinora assunte sul versante ucraino.

L’espediente di presentare Aspides come gemmazione delle missioni di sicurezza commerciale e antipirateria Atalanta e Agenor – inaugurate rispettivamente nel 2008 a largo della Somalia e nel 2020 nel Golfo Persico – servirebbe ad aggirare i passaggi parlamentari richiesti per le iniziative militari, evitando frizioni politiche e complicate variazioni di bilancio. Ma la “foglia di fico” non basterebbe a coprire un intervento che esige ben più di una di scorta atta a respingere gli arrembaggi pirateschi, trattandosi invece di neutralizzare alla fonte sciami di droni e missili balistici.

Dirimente sarebbe piuttosto investire sulla soluzione alla radice, cioè premendo su Israele per la sospensione delle azioni nella Striscia di Gaza, che agli occhi del mondo musulmano appaiono sempre più intese a decimare la popolazione palestinese. Ma tutt’oggi non pare essere questo l’indirizzo dei governi occidentali, a giudicare dai blocchi dei finanziamenti all’agenzia per i rifugiati Unrwa prontamente decisi sulla parola delle accuse mosse da Israele, che così assesta ai danni dell’Onu l’ennesimo colpo sotto la cintola.

Un secondo banco di prova, foriero di un’impasse viepiù problematica, viene predisposto dalla storica pronuncia della Corte internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. Ritenendo fondato l’impianto accusatorio promosso dal Sudafrica, venerdì essa ha ingiunto l’adozione di misure urgenti per prevenire atti di genocidio a Gaza, pur senza implicare il cessate il fuoco invocato da Pretoria. Il governo israeliano ha puntualmente tacciato la decisione di oltraggioso antisemitismo, benché per la sentenza si dovranno attendere mesi, se non anni, con la necessità di accertare l’intenzionalità di Tel Aviv – pur già evidente dall’esorbitanza delle vittime civili (30mila in 3 mesi), dalle citazioni bibliche di Netanyahu sui voti di sterminio di uomini, donne, bambini e animali cananei e dalle dichiarazioni dei membri di governo sulla bestialità palestinese, nel quadro della deumanizzazione che tipicamente giustifica i disegni genocidari. Frattanto procede l’istruttoria del procedimento intentato da Messico e Cile dinanzi alla Corte penale internazionale a carico di singoli ministri israeliani per crimini contro l’umanità.

Dunque, mentre Guterres viene bersagliato dagli strali di Tel Aviv, gli organi del diritto e della giustizia internazionali tentano di rilanciare la propria legittimazione, spesso afflitta, nella prospettiva del Sud globale, da un fumus di subordinazione al suprematismo di un Occidente pur sempre minoritario. Proprio all’Occidente collettivo, in sede Onu, spetterà ora confermare fattivamente l’avviso della Corte di Giustizia. A meno di non essere disposto a smentirla continuando a schermare Israele, con l’allineamento ai veti Usa sulle prossime proposte di risoluzione, che di certo non tarderanno.

I fatti, pertanto, diranno della disponibilità strategica a compromettersi ulteriormente agli occhi del mondo (inclusa l’opinione pubblica domestica) e della storia. Quella storia chiamata in causa nel Giorno della Memoria per impedire, prima che nel futuro, nelle circostanze presenti – mentre si rammemora! – il ripetersi della tragedia narrata. Impedire e non fondare doppie morali o licenze vittimologiche che vanificano la lezione dello sgomento rivissuto nel cuore (ri-cordare, appunto). Diversamente, lo scadimento retorico della liturgia aggiungerà all’elenco delle vittime i valori nominalmente associati a bandiere troppo autoreferenziali per essere considerate universalmente credibili.

Giuseppe Casale*

*Pontificia università lateranense

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Fonte: Sir