80 anni del vescovo Mattiazzo: "Vivo in unione con il mondo"

Il vescovo emerito Antonio Mattiazzo ha compiuto ottant’anni e ha festeggiato con la sua “famiglia” di Villa Immacolata. Auguri dal vescovo Claudio e da tutta la Diocesi. Ora è in attesa di ripartire per Nazareth, dove ha scelto di rimettersi a servizio

80 anni del vescovo Mattiazzo: "Vivo in unione con il mondo"

Se il virus non l’avesse bloccato, e non per problemi di salute (anzi, è in formissima), avrebbe festeggiato gli ottant’anni a Nazareth. Lì dove, da giugno dello scorso anno, ha scelto di rimettersi a servizio. «Quando è scoppiata l’emergenza sanitaria – racconta il vescovo emerito Antonio Mattiazzo, che ha festeggiato il compleanno lunedì 20 aprile – avevo in mano il biglietto per tornare in Terra Santa. Ma... è saltato tutto. Ora sono a Villa Immacolata: siamo una piccola famiglia che si vuole bene. Prego, medito, studio, faccio direzione spirituale, scrivo e mi godo il meraviglioso parco della casa... Ma vivo in unione con tutta l’umanità attraverso le notizie che ascolto, anche in alcuni canali televisivi stranieri: è un modo per avere uno sguardo dall’esterno. E mi capita, alla mia età, anche di fare confronti con il passato. Quand’ero in seminario, al liceo – era il 1957 – mi sono ammalato, anche se per poco, di influenza asiatica. Per quell’epidemia, dove scuole e chiese non sono state chiuse, morì un milione di persone nel mondo. Mi fa impressione confrontare i diversi stili di vita, la globalizzazione... Colgo tanti interrogativi sul senso di ciò che stiamo vivendo. Credo che la Chiesa sia chiamata a dire la propria».

Non le chiedo un bilancio, vescovo Antonio, per questo compleanno “tondo”. Vorrei, però, che lei condividesse con noi alcuni incontri che hanno toccato il suo cuore e che continuano a farlo anche oggi.
«Gli incontri sono tanti, ma penso soprattutto ad alcuni ambienti: la famiglia, prima di tutto. Un punto chiave sono stati i miei genitori, Giuseppina e Faone. Morti a poco meno di novant’anni, hanno sempre goduto di buona salute fisica, psichica e spirituale. Doni che hanno fatto anche a me. E poi penso all’altra mia famiglia, quella del seminario. Ho ricevuto una solida formazione umana, cristiana, spirituale e sacerdotale. Sono stato molto lontano da casa, dalla diocesi... ma le basi che queste due famiglie mi hanno dato, sono state così robuste che mi sono trovato bene dappertutto. E poi c’è stato un evento, certamente fatto di incontri, ma non solo, che mi ha segnato: il Concilio Vaticano II. Ero a Roma dal 1964 al 1968... Così come gli studi all’estero, in Germania ed Inghilterra, e l’esperienza nella nunziatura in Nicaragua. Il contatto con ambienti diversi è cosa buona: se si è aperti, e se si ha un impianto solido, si cresce. Bisogna imparare a fare sempre nuove sintesi. Nei diversi contesti e a ogni età».

Nazareth è il luogo della “nuova sintesi” di questi anni?
«A me la Terra Santa ha sempre affascinato, così come il popolo ebraico: custodisce un mistero che mi fa molto riflettere. Così, tornato dalla missione in Etiopia, mi sono messo a servizio della Custodia di Terra Santa. Vivo a Nazareth nella comunità dei Francescani che si prendono cura della basilica dell’Annunciazione. Siamo una decina, di nazionalità diverse, e ci occupiamo delle confessioni (io sono a disposizione due ore al mattino e due al pomeriggio: arrivano tantissime persone, anche non cristiane), dell’accoglienza dei pellegrini, delle celebrazioni e dei ritiri presso tre comunità di religiose e di due comunità di immigrati filippini (sono soprattutto badanti, la maggior parte donne, molti cattolici). È un’esperienza incredibile, perché vieni a contatto con il mondo. Si vive in pieno la dimensione interreligiosa: qui il contatto con ebrei e musulmani è quotidiano. Mi accorgo, inoltre, che Maria è davvero una madre universale: attira tutti».

Dall’Etiopia alla Terra Santa, solo per citare due dei contesti extra Italia/Europa in cui si è speso. Ma... come si fa a ripartire, ogni volta, quasi da zero?
«Dopo dieci giorni che ero in Etiopia, sono rimasto da solo e c’era da celebrare la messa. Ho imparato a leggere la lingua oromo e mi sono fatto aiutare, per alcune parti in inglese, da chi lo conosceva. Mi sono buttato. E le persone mi hanno accolto senza problemi. Quando affronti una fatica o una situazione ardua, ovunque, hai bisogno di motivazioni forti. Soprattutto di ordine morale e spirituale. Io ho visto persone, anche in paesi come gli Stati Uniti, che non ce l’hanno fatta: il non conoscere la lingua li ha paralizzati. Il buttarsi, le motivazioni solide e il desiderio di relazionarsi fanno superare le fatiche. E, se si superano, si procede rafforzati».

La sua lunga esperienza, anche con lo sguardo “da fuori” maturato negli anni, come le fa valutare l’emergenza, non solo sanitaria, che stiamo vivendo?
«Percepisco una involuzione, non solo in questi ultimi tempi. Già quando sono entrato come vescovo a Padova, nel settembre 1989, ho più volte richiamato l’attenzione su un forte e progressivo declino spirituale dell’Italia e del mondo. Un dato evidente, allora come oggi, è la denatalità. Che denota, prima di tutto, una crisi spirituale. La società è un corpo, ma un corpo è tenuto insieme dall’anima. Secondo me, l’anima dell’Italia e dell’Europa si è atrofizzata. E un’anima atrofizzata si riflette sulla politica e sull’economia. Non abbiamo più una politica che sappia governare la società attraverso i valori. È succube del mercato e il mercato non guarda in faccia nessuno: è governato dal profitto. Penso che l’emergenza Coronavirus possa servire a rivedere le priorità. A partire dal considerare l’uomo non solo come l’ultimo capitolo della zoologia, ma come – ci ricorda san Paolo – fatto di corpo, anima e spirito. Dove quest’ultimo è la parte superiore dell’anima, aperta all’infinito. A Dio. Credo che le comunità cristiane dovrebbero, a partire da questi fondamenti, essere sorgenti di vita nuova. Sorgenti che danno un’anima alla società. Che risvegliano un’anima assopita! Lo diceva già l’autore della Lettera a Diogneto: i cristiani sono nella società ciò che è l’anima per il corpo. Nella riflessione che la Difesa ha pubblicato il 5 aprile scrivevo che “il Coronavirus, se lo affrontiamo con fede, saggezza e coraggio, lascerà un segno positivo nella nostra vita”. Ai cristiani questa emergenza chiede di non andare avanti come prima, ma di coglierla come occasione propizia per rivedere tante cose. La chiamiamo conversione...».

Rivedere tante cose. Stiamo tutti guardando alla cosiddetta “fase 2”. Che piste ci consegna, vescovo Antonio, per affrontarla da cristiani?
«Come cristiani e comunità cristiane dobbiamo, come punto di partenza, mettere al primo posto il Signore. Recuperare, quindi, la nostra anima profonda. Solo in questo modo ci saranno comunità solide, spiritualmente vive, che possano infondere un’anima a questa società. Solo così saranno comunità realmente testimoni. La seconda pista che intravvedo è questa: rivedere l’idea di benessere e di progresso. Occorre andare all’essenziale, ma non pensando che così ci priviamo di qualcosa. Togliamo il superfluo... C’è poi, come terza pista, il fronte dell’educazione: in una società liquida come quella attuale, va recuperata l’educazione alle virtù».

E le sue, di piste, per il futuro?
«Spero di tornare presto in Terra Santa. E vorrei continuare a usare bene il mio tempo, come mi hanno insegnato in famiglia. Ho tante cose in mente».

La pandemia in Africa: alcune riflessioni

Riflette sull’impatto del Coronavirus in Africa, il vescovo Mattiazzo. «Se penso all’Etiopia, dove ho vissuto negli ultimi anni, mi chiedo: che mezzi hanno per accertare chi è positivo? Non ci sono servizi sanitari... I nostri missionari, in ogni caso, sono in quarantena: vuol dire che il virus è presente. C’è da dire, per come l’ho vissuta io, che chi ha male ti indica testa o pancia. Niente di più. Come si fa a capire cos’ha? Inoltre, il fatto di morire è molto naturale, non traumatico come da noi».

La Chiesa è vedova senza il suo Sposo

«L’Eucaristia senza popolo – riflette il vescovo emerito Antonio – è una diminuzione della Chiesa. Il venerdì santo, celebrando a Villa Immacolata, è stata richiamata la mia attenzione sul fatto che, come prescrivono le norme della Chiesa, il vescovo si toglie l’anello. Io lo interpreto così: lo sposo della Chiesa è nel sepolcro, quindi la Chiesa è vedova. Piange il suo sposo. Anche in questo tempo di Coronavirus la Chiesa è un po’ vedova. L’Eucaristia è un bene così grande...Questo deve farci pensare tanto. Ci sono persone che mi chiedono: cosa fare di fronte al fatto che non si può partecipare alla messa? Io, prima di dare una risposta, chiedo: che percentuale di persone c’era che partecipava prima del Coronavirus? Certo, andrebbero individuate – con la massima prudenza – soluzione per tornare a celebrare insieme. Io dico che, comunque, ciò che stiamo vivendo va accettato. E dobbiamo continuare a pregare il Signore. E convertirci!».

Nella “dieta” del cristiano è essenziale il digiuno

Gli anni da missionario in Etiopia – dal 2015 al 2019 – gli hanno dato molto. «Mi è servito vivere in un ambiente povero. A 2.700 metri, dove mi trovavo, le persone vivono con l’essenziale. Io non sentivo la mancanza di nulla. Già in Kenya avevo colto come si può vivere liberi da tante cose. Hai più tempo per stare con le persone, pregare, studiare... In Etiopia, inoltre, ho recuperato la pratica del digiuno. Non è contro la persona, ma la libera da pesi inutili. Penso che la Chiesa dovrebbe avere il coraggio di proporlo con più forza. Perché non fare digiuno una volta alla settimana? È provato che fa bene al fisico, ma non solo. C’è un digiuno anche da molte altre cose superflue, non solo dal cibo. Penso che anche il cristiano dovrebbe farsi la sua dieta, chiedendosi: cos’è cibo per la mia anima? Si tratta di recuperare il centro della persona».

Riflessione sulla vita eterna: in uscita un volume

«Da quando sono andato in pensione – racconta il vescovo emerito Antonio – sto riflettendo su un tema messo un po’ da parte, a tratti sbiadito: la vita eterna intesa non come appendice di quella che stiamo vivendo, ma suo riflesso. In teologia diremmo: il già e il non ancora. In questi tempi, poi, che sono morte molte persone è una questione quanto mai attuale. L’uomo, diceva Heidegger, è un essere per la morte. E dell’amore, delle persone care... sparisce tutto nel nulla? È inumano. La Chiesa è l’unica che su questo tema può dire una parola di speranza. Non può essere una speranza corta...». Sul tema il vescovo emerito Mattiazzo ha scritto una approfondita riflessione che verrà pubblicata nel volume – in uscita prossimamente – dal titolo Confezionare l’abito per le nozze eterne. Percorso di iniziazione alla vita eterna (Gregoriana Libreria Editrice).

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)