Di stelle comete e catastrofi globali. “Don’t look up” e la sua ispirazione

Una stella cometa non foriera di Vita, come quella di 2000 anni fa, ma di morte: in entrambi i casi, comete che costringono l’umanità a fermarsi, a guardare in alto, a fare i conti con l’essenziale. E dunque a scegliere se riconciliarsi o meno. E così, mentre i ricchi e i potenti fuggono verso la loro morte nelle tenebrose profondità dello spazio, i protagonisti si ritrovano per una bella cena, la loro ultima cena, in senso letterale e spirituale: sarà l’ultima perché moriranno, ma sarà l’ultima anche perché in essa parlano chiaramente tutti gli elementi eucaristici dell’Ultima Cena archetipa, quella nel Cenacolo

Di stelle comete e catastrofi globali. “Don’t look up” e la sua ispirazione

Nella scia di questo “Natale al Covid” cade bene una riflessione su un bel film uscito stranamente su Netflix, “Don’t look up, le cui gigantesche pubblicità hanno coperto con i visi dei protagonisti d’eccezione i palazzi e le stazioni di Roma nell’imminenza dell’uscita.

Cade bene perché anche qui si parla di una stella cometa e di problemi globali, solo che nella storia raccontata dal film l’una è causa dei secondi: una cometa di 9 km di diametro sta per abbattersi sulla Terra, e gli astronomi autori della scoperta, interpretati da Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence, non hanno dubbi: l’impatto sarà inevitabile.

(da qui in avanti, spoiler…)

Il film si discosta alquanto dal genere catastrofista, peraltro preso in giro dal film stesso, in cui compare un regista che fa un film sull’impatto di una cometa con la Terra e che dovrebbe uscire il giorno dell’impatto effettivo. La catastrofe, alla quale si potrebbe benissimo sostituire, tanto per dire, una pandemia globale che ha fatto ad oggi cinque milioni e mezzo di morti, è il pretesto narrativo per studiare a fondo, con primissimi piani di dettagli somatici e comportamentali dei personaggi, l’atteggiamento delle persone, dei singoli come delle folle, dinanzi alla crisi.

Non sorprenderà che il film mostri come l’umanità si divida tra coloro che credono all’impatto con la cometa, e negazionisti che sono tali per motivi ideologici, forti del motto “Don’t look up”, “Non guardare in alto”, e cioè “Nega l’evidenza”. Se i secondi finiranno di essere tali grazie al semplice fatto di alzare il naso verso il cielo e accorgersi della cometa in tutta la sua terribile magnificenza (ma basterebbe davvero questo nella realtà, in un mondo in cui cortei di centinaia di bare di morti per Covid vengono liquidati da “laureati in vita” come fotomontaggi?), più complesso e interessante è l’atteggiamento dei primi.

Come ti porresti tu, dinanzi all’oggettiva certezza della fine del mondo?

E qui entra in gioco la vera profondità del film, che sa essere tragicomico senza essere banale, salvo poi farsi serissimo nella decisività della fine – come in effetti dice lo stesso protagonista a un certo punto, che criticando la superficialità dei suoi interlocutori offre di fatto una metainterpretazione di quanto noi spettatori stiamo vedendo: “Scusate, ma non deve sembrare tutto sempre così maledettamente brillante o spensierato o piacevole; in certi momenti è necessario dirci semplicemente le cose. Noi dobbiamo ascoltare delle cose!”.

Ma per lo più anche chi crede alla cometa in arrivo non vuole ascoltare. Sembra di cogliere in filigrana quanto riporta l’Apocalisse: “Il malvagio continui pure a essere malvagio e l’impuro a essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora. Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere” (Ap 22, 11-12).

E allora c’è chi nella cometa vede un’opportunità politica ed economica, secondo una grettezza talmente idiota da non riuscire neppure a essere malvagia. Il film mette alla berlina in modo implacabile e indubbiamente realistico il losco connubio tra economia, politica e ciò che le comanda sempre più entrambe: la tecnologia, che con il suo delirio di onniscienza e di onnipotenza alla fine come il falso profeta dell’Apocalisse fallisce, e rende ormai la fine inesorabile. Le false promesse di un’aurea salvezza materiale si dissolvono, e i plutocrati fuggono su un’astronave lasciandosi indietro l’umanità, per atterrare su un nuovo pianeta abitabile. Escono dall’astronave nudi, vecchi e laidamente flaccidi, emblema per eccellenza dell’uomo vecchio, l’uomo carnale il cui motore fondamentale è la paura della morte, e proprio questa paura, che li aveva spinti a provare a salvarsi da soli, dimenticandosi degli altri (familiari compresi), realizza se stessa, come sempre fa la paura quando l’ascolti, e finiscono divorati da animali preistorici che abitavano il loro nuovo pianeta.

C’è poi chi la fine la prende sul serio, e qui le cose si fanno interessanti. Nell’istante in cui appare in cielo la cometa, appare anche esplicitamente il tema della fede, in un tenero scambio tra la giovane astronoma protagonista e uno skater che si invaghisce di lei, interpretato dal giovane e talentuoso Timothée Chalamet, protagonista anche di “Dune”.

Una stella cometa non foriera di Vita, come quella di 2000 anni fa, ma di morte: in entrambi i casi, comete che costringono l’umanità a fermarsi, a guardare in alto, a fare i conti con l’essenziale. E dunque a scegliere se riconciliarsi o meno.

E così, mentre i ricchi e i potenti fuggono verso la loro morte nelle tenebrose profondità dello spazio, i protagonisti si ritrovano per una bella cena, la loro ultima cena, in senso letterale e spirituale: sarà l’ultima perché moriranno, ma sarà l’ultima anche perché in essa parlano chiaramente tutti gli elementi eucaristici dell’Ultima Cena archetipa, quella nel Cenacolo. I personaggi si prendono per mano e, guidati dallo skater che ha riscoperto la sua fede, ringraziano il Padre per i doni ricevuti nella loro vita, e poi riflettono su come nel cibo si mangiano i ricordi: ringraziamento, memoriale, riconciliazione (tra il protagonista e la moglie).

L’amore spezza la causalità prevedibile dalle macchine e dal fato, e mentre il grigiamente demoniaco Ceo dell’Ap… ehm… della Bash aveva profetizzato al protagonista che, in base all’algoritmo, sarebbe morto da solo, egli al contrario lascerà questo mondo nella ritrovata comunione con i suoi cari: l’amore sfugge alla prevedibilità della techne, perché l’amore è sovrannaturale nella sua origine e nel suo destino – mentre la morte della Presidente, per quanto assurda ed enigmatica, sarà predetta e realizzata esattamente, in quanto, come dicevamo sopra, la paura realizza sempre fatalisticamente se stessa.

Se è vero che la fine li coglie come coglie tutti gli altri, perché per fortuna in questo film non arriva la cavalleria, proprio l’evocazione eucaristica di questo ultimo atto ci permette di chiederci se sarà davvero la fine, o piuttosto non sarà una Pasqua.

Ma in fondo non è la domanda che dobbiamo porci ogni giorno per noi stessi, aiutati in ciò dalla pandemia?
Temiamo una fine, o speriamo in una Pasqua?

Come nota in calce, vorrei lasciare aperta un’altra domanda, di tutt’altro tenore: come mai noi Cattolici non riusciamo a produrre film analoghi a questo, che con una narrativa vivace e ottimi attori riesce a trasmettere in filigrana contenuti decisivi della vita spirituale, domande profonde, senza essere apertamente “religioso”, e dunque poco appetibile ai più?

A noi troppo spesso manca il contenitore, pur avendo il contenuto, e ci riduciamo a filmetti sottocosto di natura moralistica ed edificante.

Forse ci manca il coraggio di osare, di sporcarci le mani con linguaggi, situazioni, contesti e raffigurazioni che sicuramente farebbero alzare più di un sopracciglio di educanda, ma che raggiungerebbero finalmente l’uomo incrinato d’oggi, l’uomo che ha bisogno di risposte che lo raggiungano nella merda in cui si trova, esattamente come il Verbo di Dio scelse di raggiungerci nelle nostre stalle e nelle nostre grotte, senza turbarsi e senza schifarsi.

Alessandro Di Medio

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Fonte: Sir