Eliminare violenza con violenza: impossibile. Parla don Moreno Cattelan, missionario orionino padovano in Ucraina

Un anno di guerra, di morti, di distruzioni, di sofferenze, di cui non si vede la fine. Ma anche un anno di solidarietà, di vicinanza, di accoglienza.

Eliminare violenza con violenza: impossibile. Parla don Moreno Cattelan, missionario orionino padovano in Ucraina

Mentre le diplomazie sono in stallo e cresce la minaccia di una escalation nucleare del conflitto, la popolazione civile cerca di andare avanti, di ritagliarsi una quotidianità possibile, come ci racconta don Moreno Cattelan, missionario padovano della Piccola opera della Divina Provvidenza di don Orione, da alcuni anni a servizio nella Chiesa greco cattolica dell’Ucraina, tra Leopoli e la capitale Kiev. Dall’inizio della guerra i missionari orionini hanno accolto molte persone in fuga, soprattutto donne e bambini, all’interno delle loro case.

Don Moreno, che cosa sostiene la speranza della popolazione, di voi missionari che condividete la vita con loro?
«Davvero non si vede la fine di questa tragedia. Credo sia questo il primo dato da registrare facendo un rapido bilancio di questo anno di guerra. Doveva essere “un’operazione speciale” attraverso la quale, nel giro di qualche giorno l’intera nazione, partendo dalla capitale Kiev, sarebbe stata interamente conquistata. Le cose non sono andate come previsto e, se da un lato questa “aggressione” ha avuto un esito inaspettato, dall’altro ha seminato morte e distruzione da ambo le parti con la ricaduta, anche a livello internazionale, che tutti ben conosciamo. Questi sono i frutti della guerra. Di ogni guerra. A prescindere dal movente o dalla scintilla che ha innescato il conflitto. La guerra, anche questa guerra, resta un’inutile strage. Papa Francesco nei sui numerosi interventi la definisce «una guerra insensata». E ci ricorda quelle che sono le conseguenze di ogni guerra: non la vittoria di una o dell’altra fazione, direttamente coinvolte, ma una sconfitta per l’intera umanità. Noi questa sconfitta l’abbiamo percepita fin dai primi giorni del conflitto e soprattutto da quando abbiamo constatato che ogni tentativo di mediazione, a vari livelli, è risultato vano, se non controproducente. Giorno dopo giorno la nostra gente vive questo “disagio” che deriva non solo a motivo del conflitto esteriore, quello visibile quotidianamente e combattuto nelle trincee del Donbass, o dalla sensazione che si prova dopo il suono delle sirene che annunciano un imminente bombardamento, ma quel sentimento di rivalsa, di animosità, che spesso sfocia nell’odio, annidato nel cuore e nella coscienza della popolazione. Tentiamo di innescare un processo di pace e riconciliazione, ma un tale processo richiede tempo e pazienza, e soprattutto la fine del conflitto, per poter ricostruire case e coscienze. Ci sostiene la certezza che qualsiasi male dell’uomo, Dio lo può trasformare in bellezza. È in questo che poniamo la nostra speranza, qualsiasi cosa succeda».

Che cosa manca per far fare il passo decisivo alla pace?
«Anzitutto la volontà. Non siamo degli utopici. Ogni guerra coinvolge non solo i diretti interessati, ma una compagnia di attori che “dietro le quinte” per interessi noti od occulti, fomentano e alimentano i contrasti. Le condizioni presentate da ambo le parti per raggiungere un possibile accordo di pace non sono accettabili, come si rimpallano i diretti interessati. Gli organismi internazionali, deputati a questo compito, hanno dimostrato la loro debolezza, incapacità o mancata volontà. Come per ogni tipo di malattia o altro si può innescare un processo di prevenzione, così dovrebbe essere per la guerra. Nel nostro caso, sono sempre attuali i pilastri “preventivi” che sostengono ogni processo di pace, ovvero la ricerca sincera della verità, della giustizia, della solidarietà che sfociano nella libertà e autodeterminazione di un popolo. In secondo luogo, se chiediamo alla gente comune se sperano in una pace possibile, ti risponderanno che non è una speranza, ma una certezza: «la certezza che vinceremo». A mio avviso questa certezza della vittoria è una strada a senso unico. Richiede aiuti adeguati per poter contrastare il nemico, per vincere o perlomeno competere alla pari. Capisco bene che è una questione non risolvibile con una battuta ma vorrei, a questo riguardo, citare il grande scrittore russo Lev Tolstoj: “Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza”. Insomma: “Non c’è un cammino, una via per la pace. Il cammino, la via è la pace”».

Da subito lei ha tenuto un diario quotidiano su Facebook chiamandolo “Diario di pace”, per raccontare il bene che vedeva e che riuscivate insieme a far crescere, senza mai nascondere ciò che succedeva intorno a voi. Un modo per non chiudere gli occhi, ma anche per guardare oltre?
«Ogni tanto rileggo qualche pagina di questo diario che, appunto, tra le righe della cronaca segnata da allarmi, bombardamenti, paura e senso della precarietà, metteva in luce tanti aspetti positivi, avvenimenti, gesti di accoglienza, pace e vicinanza che segnavano le nostre giornate. Una cronaca che scrivevo a sera tardi, qualche volta il giorno dopo. Nulla di più. Per me era quasi un esame di coscienza sul nostro operato. So che era seguito da diverse persone che poi lo condividevano. Mi hanno anche detto che in una classe di una scuola nel trevigiano veniva letto dalla maestra prima di iniziare la lezione. Era un modo per comunicare e far conoscere come la guerra era da noi vissuta su quello che abbiamo sempre chiamato il “fronte della carità”. Un’esperienza condivisa con i profughi da noi ospitati a Leopoli, una cinquantina, e soprattutto l’aiuto dato a quasi 750 persone, mamme con i bambini, molti dei quali con patologie, persone disabili e anziani, che ha permesso loro di raggiungere un posto sicuro in Italia dove lo sguardo, pur rimanendo fisso sulle persone care e sugli affetti lasciati in patria, poteva guardare oltre, perché illuminato dalla solidarietà che percepivano intorno a loro».

Com’è oggi la situazione nelle vostre missioni, a Leopoli e a Kiev? Che tipo di attività riuscite a fare?
«A partire dalla metà di ottobre 2022 è iniziata una fase della guerra del tutto particolare: con l’utilizzo dei droni venivano (e vengono tutt’ora) colpite a cadenza quasi settimanale le infrastrutture cosiddette sensibili, soprattutto quelle elettriche. Ciò ha compromesso il regolare esercizio di erogazione della corrente elettrica, soprattutto nelle grandi città. Complice l’inverno, si è creata una situazione di enorme disagio dal momento che questo servizio indispensabile viene garantito solo qualche ora al giorno. Non è stato facile adattarsi a questa nuova situazione, ma tale inconveniente non ha compromesso la continuazione delle nostre attività a Leopoli come qui a Kiev, grazie anche alla generosità di tanti amici e benefattori che ci hanno dato la possibilità di acquistare dei generatori che utilizziamo durante i blackout. Pertanto prosegue l’assistenza che si fa al gruppo di giovani disabili a Leopoli ed il servizio Caritas per circa 200 persone alle quali viene consegnato settimanalmente un pacco alimentare. Durante tutto il periodo della guerra non sono state sospese le attività parrocchiali: l’oratorio ha sempre funzionato tanto da garantire, la scorsa estate, anche il grest per i ragazzi. Ugualmente a Kiev, dove siamo ritornati ad agosto, sono continuate le attività dell’oratorio, soprattutto dopo l’inizio dell’anno scolastico. Anche qui prestiamo un servizio ai senzatetto, fornendo loro un pasto caldo due volte alla settimana. Siamo partiti avvicinando una quarantina di senzatetto e ora distribuiamo già 150 pasti. Garantiamo così un minimo di sussistenza non solo ai meno abbienti, ma anche ad altre persone che, a causa della guerra, sono cadute nella rete della povertà. Un servizio che coinvolge volontari appartenenti a diverse confessioni. Ma l’opera più difficile e importante è far vivere questo momento di grande sofferenza e incertezza alla luce del Vangelo».

Anche quando la guerra non è più in prima pagina

Domenica 29 gennaio scorso, don Moreno era presente alla marcia per la pace organizzato dalle Diocesi di Padova, Treviso e Vicenza: «Un evidente segno delle parole di Papa Francesco, “Non abituiamoci alla guerra e alla violenza”».

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