L'oro blu fa gola al mondo intero
Entro il 2030 metà della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. Ecco perché si moltiplicano i conflitti per l'acqua.
L’oro blu scarseggia e fa sempre più gola a chi mira ad accaparrarselo. Sono 507, nel mondo, le tensioni irrisolte in cui c’entra l’acqua. Un bene primario su cui si giocheranno sempre più gli equilibri mondiali, un po’ com’è stato per il petrolio. Le Nazioni Unite stimano che entro il 2030 il 47 per cento della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. Un'emergenza che avrà forti ripercussioni sulla stabilità sociale e sulle migrazioni.
A rilanciare l'allarme è il giornalista ambientale e geografo Emanuele Bompan, autore con Marirosa Iannelli del saggio Water grabbing. Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (Emi). «Da un lato registriamo una crescente domanda di acqua: siamo sulla traiettoria dei 9 miliardi di abitanti e i Paesi in via di sviluppo reclamano uno stile di vita con consumi idrici simili ai nostri – rileva l’autore – Dall’altro, c’è una crescente scarsità, anche perché sciupiamo e inquiniamo l’acqua che abbiamo».
Il cambiamento climatico, poi, non ha contribuito a risollevare la situazione. «L’uomo ha alterato i meccanismi del clima, variando la disponibilità di acqua che per 11 mila anni era stata bene o male costante: così ci ritroviamo con aree improvvisamente colpite da stress idrico, come sta accadendo in Sudafrica». Un esempio l’abbiamo avuto con la siccità dell’estate scorsa, derivante dalle mancate nevicate sulle Alpi. «Nel nostro piccolo ha causato una “guerra” fra Trentino e Veneto: quest’ultimo ha chiesto a gran voce l’apertura delle dighe trentine, usate per produrre energia, per salvare la produzione agricola».
Le dighe: sbarramenti non necessariamente malvagi, se non servono solo a scopo utilitaristico, ignorando i bisogni delle popolazioni. «Oggi però sono uno dei tanti elementi che fanno parte della corsa all’industrializzazione dei Paesi in via di sviluppo: in Laos e in Etiopia, ad esempio, rappresentano la strategia centrale di ammodernamento dello Stato». Un problema enorme si sta verificando lungo il corso del Mekong, il fiume più lungo (e conteso) dell’Indocina. «Verrà intrappolato da 39 dighe, alcune delle quali gigantesche e progettate frettolosamente – avvisa Bompan – Il tutto senza valutare gli impatti sull’intero ecosistema del fiume, dalla riduzione dei pesci al difficile passaggio dei nutrienti, trascurando la delocalizzazione delle persone, soprattutto pescatori cacciati verso piccoli sobborghi cittadini o terreni non coltivabili». Una potenziale bomba a orologeria, visto che i Paesi interessati (Cina, Birmania, Tailandia, Laos, Cambogia e Vietnam) non brillano per rapporti diplomatici.
Altri potenziali focolai si trovano attorno al fiume Brahmaputra, fra India e Cina, e al Giordano in Medio Oriente. L’elenco potrebbe continuare a lungo in Africa. In Etiopia la grande diga Gibe III, invaso sfruttato dalle compagnie straniere che producono canna da zucchero, destabilizza gli equilibri geo-sociali della regione dell’Oromia.
Altro tema affrontato dal progetto (approfondibile sul sito www.watergrabbing.it) è quello delle privatizzazioni. «Un fenomeno che era rallentato nel Duemila e ora sta tornando – evidenzia l’esperto – Il caso di Giacarta è emblematico: il sistema idrico è stato privatizzato e gli abitanti più poveri, incapaci di pagare le tariffe, hanno iniziato a scavarsi dei pozzi: il risultato è che oggi l’isola sprofonda di 5 centimetri ogni anno». Infine, a mettere le mani sull’acqua sono le grandi multinazionali del beverage. Nestlè, ad esempio, ha acquisito per poche centinaia di dollari delle fonti tra Canada e Ontario, nella regione dei grandi laghi, trovando l’appoggio delle istituzioni, perché rilancerà un’area con economia depressa. Ma in futuro anche i potenti avranno sempre più sete. «Non a caso, la finanza incoraggia a investire nei prossimi 20-30 anni in compagnie legate alla gestione delle risorse idriche», conclude Bompan. E quando si muove la finanza...