La preghiera: abbandono fiducioso. È metterci in ginocchio ai piedi della croce
Non è infrequente che Gesù, mentre manifesta il Regno di Dio (a questo servono le sue parole), usando immagini, similitudini, componendo brevi racconti parabolici carichi di pathos, all’improvviso ci catapulti da tutt’altra parte. Eppure il salto non risulta alienante. Capitolo 18 del Vangelo di Luca.
I discepoli ascoltano la parabola del giudice cinico, infastidito dalla costanza di una vedova che gli chiede giustizia con energia. Alla fine, esasperato, è costretto ad accontentarla. Il nesso, dichiarato nel preambolo, è con la necessità per il cristiano di fare della preghiera un esercizio continuo. Ci sembrerebbe di aver ricevuto un comando sulla “necessità di pregare sempre” e che quel sempre sia legato all’insistenza, metaforicamente espressa dall’inesausta tenacia della vedova. Se lei continua a chiedere, il giudice finirà per esaudirla.
Un po’ come quando Mosè mantiene per un’intera giornata, fino al calare del sole, le braccia levate al cielo, in modo che Amalèk con i suoi guerrieri non prevalga, e così il popolo d’Israele, guidato da Giosuè, riesce a vincere la battaglia e a proseguire il cammino verso la Terra promessa. Però poi conosciamo più di qualche persona giusta, buona, credente, fervente e fedele che langue nella sofferenza. A volte capita che si accostino a noi per chiedere la nostra preghiera. È evidente che tutte le parole che la Chiesa ci fa celebrare ruotino intorno al mistero del Pane e del Vino, che sono il Figlio di Dio immolato, sepolto e glorificato. Anche la parabola della vedova e del giudice. Non possiamo non renderci conto che facili deduzioni etiche non danno fede alla nube d’incenso che copre il Vangelo celebrato e lo nasconde, a dire che esso non è un volumone qualunque da consultare, un’enciclopedia dove alla lettera P si trova il tema: “preghiera”.
Altrimenti diventerebbe naturale arrivare all’Eucaristia, la domenica, con delle attese, grande malattia dell’epoca contemporanea. L’attesa di sentire quel particolare genere di discorso che tratta il tale argomento, come quando si apre il quotidiano e si va a guardare cosa c’è in terza pagina. Guai a leggere le parabole fraintendendole e banalizzandole, quasi fossero dei raccontini semplicissimi. È esattamente il contrario. Esse ci portano in un’aria rarefatta, dove ci aggredisce l’evidenza della nostra vicina, amica, conoscente, parente, brava signora di 65 anni con tre figli, il primo divorziato, l’altro che si droga e il terzo che non trova lavoro, e lei va a messa tutti i giorni, dice il santo rosario, è fedele, aiuta i poveri, è paziente... «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?». L’evidenza sconcertante del giusto perseguitato dalla sofferenza ci toglie di dosso la patina di religiosità borghese, fasulla, inutile, le pose di un cattolichese che non è cristianesimo.
«Dio farà giustizia», perché il Giusto e la sua giustizia non sono quelli del mondo. Non possiamo aspettarci che la nostra preghiera sposti le decisioni del Padre. Basta ricordare san Francesco d’Assisi. O leggere in genere le biografie dei santi: incompresi, maltrattati, odiati, calunniati, assillati dal dolore. Santa Teresa di Gesù non è stata perseguitata dai suoi confratelli carmelitani e da illustri uomini di Chiesa, perché voleva riportare alla contemplazione orante, alla
penitenza, al rigore, alla fede quei Carmeli che erano diventati dei salotti? Lei si confessava tutti i giorni e ripeteva: «Padre, mi sono addormentata durante la preghiera. Gesù abbia misericordia di me, perché il mio peccato è senza limite».
Ed era in estasi mistica... I santi non pensano di essere dei giusti: pregano incessantemente. La nostra preghiera è comunione con Dio. È l’abbandono fiducioso in una valle che può essere oscura. La santissima Madre di Dio, ai piedi della croce, mentre il Figlio era lacero di ferite e soffocava nel dolore, forse non pregava incessantemente,
avvolta nel buio del Golgota? A messa non c’è il tema – la preghiera – punto. A messa, in ogni messa, si celebra la Pasqua del Signore: che è morte, sepoltura e gloria. E noi, discepoli dell’Agnello, preghiamo, in fondo, solo di metterci in ginocchio ai piedi della croce, come Maria, credendo che saremo prontamente gratificati dalla giustizia. Credendo che passa, che si dissolve la scena di questo mondo. E solo lui brilla – e noi in lui. Ecco la giustizia. Tutto il resto, nel quale siamo chiamati a stare con fede, umiltà, preghiera, elemosine, bontà, perdono, fedeltà, pazienza, è dentro la nube d’incenso che avvolge il diacono mentre canta il Vangelo all’ambone, dove le cose di Dio non si osano dire.
don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia