Le vite nascoste dei caregiver bambini
INCHIESTA. Non hanno ancora 18 anni e già aiutano fratelli, sorelle e genitori disabili o gravemente malati. E nessuno si accorge di loro. Spesso neppure gli insegnanti, che vedono calare il loro profitto. Ma alcune associazioni vogliono portare le loro storie all’attenzione dell’opinione pubblica
ROMA – A 18 anni Giovanni non pensa solo alla scuola, allo sport, alle ragazze. Nella sua agenda quotidiana devono trovare posto anche tanti piccoli impegni per dare una mano a suo fratello Mario, che ha due anni più di lui e convive con una forma grave di autismo. I genitori lavorano entrambi fuori Modena, la città in cui vive la famiglia, e ogni mattina Giovanni aiuta il fratello maggiore a lavarsi e a vestirsi, gli prepara la colazione e attende, insieme a lui, che i volontari del centro diurno lo passino a prendere a casa. Solo a questo punto va a scuola e comincia finalmente la sua giornata. Ma non di rado Mario lo sveglia di notte per leggere insieme un libro sui tram, la sua più grande passione. In quei giorni, al mattino, Giovanni si sente più stanco del solito. Vuole bene a Mario e per non mettere in difficoltà i genitori ha rinunciato a partire per un periodo di studio all’estero, un’esperienza che, se non avesse dovuto occuparsi di lui, non si sarebbe fatta scappare: “So che mio fratello ha bisogno di me, è come se avessi una sorta di laccio che mi tira indietro”, sintetizza. Queste ed altre storie di giovani caregiver sono raccontate da SuperAbile Inail .
Giovanni e Mario sono due nomi di fantasia, ma la loro storia non ha nulla di fantasioso. È una delle tante vicende di vita vissuta in cui si è imbattuta la cooperativa sociale modenese Anziani e non solo da quando, circa sette anni anni fa, ha cominciato a occuparsi di quel piccolo esercito di giovani e giovanissimi caregiver difficilmente messi a fuoco dai servizi sociali e sanitari del nostro Paese. “Si tratta di bambini e ragazzi fino a 18 anni di età che ricoprono un ruolo significativo nel prendersi cura di un membro della propria famiglia, assumendosi responsabilità di norma affidate a un adulto – spiega Licia Boccaletti, presidente della coop Anziani e non solo –. Le situazioni possono essere molto diverse tra loro: si occupano di fratelli e sorelle, ma anche di genitori con disabilità fisiche e mentali, patologie croniche e degenerative, malattie terminali o problemi di dipendenza da alcol e da droghe”.
Eppure si tratta di casi ben più diffusi di quanto si potrebbe immaginare: “Nel 2017 l’Istat contava 391 mila caregiver tra i 15 e i 24 anni, il 6,6% della popolazione in quella fascia di età”, chiarisce Boccaletti. Ma il dato statistico non tiene conto dei tanti minorenni, al di sotto dei 15 anni, che ogni giorno assistono psicologicamente e materialmente i loro familiari, si prendono cura della casa, sbrigano incombenze e danno una mano come possono. Una ricerca condotta nel Regno Unito parla di 244 mila bambini e ragazzi tra i 5 e i 19 anni, pari al 2% del totale, impegnati nell’assistenza nei confronti di un familiare in difficoltà. E di questi 23 mila avrebbero meno di 9 anni, a fronte di un’età media di soli 12 anni. “Vuol dire che c’è almeno un giovane caregiver in ogni classe – precisa la presidente della cooperativa Anziani e non solo –. È del tutto plausibile che in Italia avvenga qualcosa di simile. Il dato britannico viene, infatti, confermato da una ricerca che abbiamo realizzato nell’ambito di un progetto europeo su 228 studenti delle scuole medie inferiori e superiori del comune di Carpi, alle porte di Modena. Ebbene, il 13,6% di questi ragazzi viveva con una persona disabile o malata da tempo e, tra essi, uno su cinque prestava un livello di cura tecnicamente definito ad alta intensità”.
D’altra parte, secondo quanto diffuso nel 2013 in occasione del lancio del programma europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile Garanzia Giovani, nel nostro Paese le responsabilità collegate alla cura dei familiari sarebbero la prima causa di inattività dei cosiddetti neet, quei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. Il nocciolo della questione, però, è comprendere fino a che punto i giovani caregiver risentano del carico di incombenze che, in una società tendente a prolungare l’adolescenza in maniera indefinita, li rende spesso così distanti dai loro coetanei. Una distanza di cui, nella maggior parte dei casi, stentano anche a prendere coscienza, rendendo per questo la propria condizione ancora più sfuggente non solo ai servizi sociali, ma anche agli stessi amici e insegnanti. Eppure, i non troppi studi italiani e internazionali sul tema parlano chiaro: i giovani caregiver soffrono spesso di ansia e depressione, temono che il loro familiare possa avere dei problemi in loro assenza, registrano cali nel rendimento scolastico e, nei casi più estremi, possono arrivare fino ad abbandonare precocemente la scuola. E poi sono costretti a rinunciare a gite, serate con gli amici e attività sportive: una cosa che, insieme alla difficoltà di parlare della propria situazione familiare, provoca isolamento, emarginazione e, qualche volta, finanche bullismo. Fortunatamente, però, crescere prima del tempo può comportare anche conseguenze positive, come il rafforzamento dell’autostima e l’aumento dell’autonomia. Giovanni, per esempio, descrive così i suoi rapporti con i genitori: “Quando sto male i miei se ne accorgono solo dopo un po’, perché prima vengono le esigenze di mio fratello”. Ma è anche fiero del suo ruolo di “ometto di casa”: “Credo che Mario abbia avuto un ruolo nella mia crescita, mi dà quella marcia in più che non so di avere, ma che gli altri mi riconoscono”.
Vanno un po’ peggio le cose per Greta (il nome è ancora di fantasia), una 18enne anche lei di Modena, che frequenta un istituto professionale e ha seguito uno dei laboratori espressivi organizzati dalla coop Anziani e non solo. Sua madre ha perso il lavoro da tempo ed è stata più volte ricoverata in varie strutture psichiatriche della zona. Greta l’aiuta nelle faccende domestiche e le fa sentire il suo affetto in tutti i modi: “La mamma ha alti e bassi, ha bisogno di qualcuno che le stia vicino e la sostenga – confida –. Dice di stare bene così, ma io non penso che possa stare bene una persona che non esce mai, che non fa mai nulla da sola, lei è brava a mascherare”. Per stare accanto a sua madre, Greta ha rischiato di essere bocciata. Non era un problema di voti, ma delle troppe assenze. Spesso si sentiva così preoccupata da non riuscire ad allontanarsi da casa: “Non penso che possa arrivare a farsi del male, ma non lo so, perché a volte non la capisco”. Greta, inoltre, non aveva molti amici e si sentiva spesso vittima dei bulli, almeno fino a che non ha deciso di cambiare scuola.
Greta fa parte di quell’esercito di ragazze e ragazzi figli di genitori con disturbo psichico, una situazione tanto diffusa quanto delicata e difficile da affrontare. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che, nel mondo, una persona su quattro abbia sperimentato nel corso della propria vita almeno un’esperienza di sofferenza mentale e, tra queste, un quarto sono genitori. Per aiutare chi ha un padre o una madre con depressione, disturbo bipolare o schizofrenia, per fare qualche esempio, alla fine del 2017 è nata l’associazione Comip, acronimo che sta per Children of mentally ill parents. “Si tratta della prima organizzazione italiana creata da e per figli di genitori con un problema di salute mentale”, spiega la presidente Stefania Buoni che, grazie al sostegno del Centro di servizio per il volontariato di Terni, alla fine dello scorso anno ha pubblicato una piccolo manuale di sopravvivenza intitolato “Quando mamma o papà hanno qualcosa che non va”. “Naturalmente non tutti i figli di genitori con un disagio psichico sono caregiver, ma molti di loro si occupano dei propri genitori. Purtroppo si tratta di un argomento ancora oggi tabù, di cui si parla molto poco. Per questo è necessario creare una nuova cultura della salute mentale in grado di superare lo stigma e il senso di vergogna”.
Laureata in Scienze della comunicazione e appassionata di scrittura e social media, Stefania è nata a Roma ma oggi vive a Orte (Viterbo). Nel 2010, all’età di 30 anni, ha cominciato a cercare in rete informazioni sulla situazione dei cosiddetti forgotten children, i figli dimenticati di padri e madri con malattia mentale. Grazie ad alcuni forum australiani, canadesi e statunitensi ha avuto modo di confrontarsi con giovani e adulti che, come lei, avevano conosciuto la sofferenza mentale di un genitore. E si è resa conto che non solo i figli di genitori con disturbo psichico sono tanti, anzi tantissimi, ma spesso vivono una vita segreta e insospettabile. “La cosa che mi ha colpito di più – racconta – è che quando ho fondato l’associazione sono stata subito contattata da vecchi amici e compagni di scuola che avevano vissuto la stessa esperienza. Non ne avevano mai parlato a nessuno, li conoscevo da tanto tempo, eppure non sapevo nulla delle loro storie familiari”.
Per questo uno degli obiettivi principali del Comip è quello di far sentire meno soli i tanti adolescenti, giovani e adulti che si trovano in questa situazione. “È difficile confidarsi con qualcuno, spesso ci si sente gli unici al mondo – prosegue Buoni –. E poi ci sono la rabbia, la paura e il senso di colpa. Non è semplice comprendere che se mamma o papà soffrono di depressione, schizofrenia o disturbo bipolare non è colpa tua e non è tuo compito guarire il tuo genitore”. Le situazioni, poi, sono tutte l’una diversa dall’altra. Alcuni hanno subito abusi, altri hanno avuto, nonostante tutto, genitori amorevoli. Non tutti sono restati con la madre e il padre biologici, perché c’è chi è dovuto andare a vivere presso parenti, genitori affidatari o case famiglia. C’è chi non ha mai conosciuto il genitore prima del manifestarsi della malattia e chi, invece, ha vissuto un prima e un dopo. Alcuni, infine, sono rimasti invischiati nelle dinamiche familiari, mentre altri hanno tagliato la corda appena hanno potuto.
In tutti i casi, però, si tratta di equilibri fragili, soggetti a essere spazzati via alla prima folata di vento. Ma se è necessario guardare in faccia alla realtà e non minimizzare i problemi, è altrettanto sbagliato pensare che non ci sia soluzione. Chi frequenta il gruppo di auto mutuo aiuto online gestito da Comip lo sa: per quanto drammatica, nessuna situazione è senza via d’uscita. Anzi, a volte la convivenza con i problemi dei propri cari aiuta a raggiungere maggiore consapevolezza della propria fragilità come della propria forza. Ne è convinta Stefania Buoni, che sintetizza il suo pensiero in questo modo: “Avere vissuto un’esperienza così delicata e tosta potrebbe farti pensare che ti attende un futuro in cui ripercorrere il cammino dei tuoi genitori. Ma non è detto che sia così: hai sempre la possibilità di diventare agente attivo di cambiamento”.
Antonella Patete