“Lei mi parla ancora”, il nuovo film di Pupi Avati. Velardi (attore): “Un fiore nel deserto”
È uscito l'8 febbraio su Sky Cinema “Lei mi parla ancora”, il nuovo film di Pupi Avati ispirato dal libro di Giuseppe Sgarbi. Il libro racconta il rapporto matrimoniale del padre del critico d’arte Vittorio Sgarbi con la moglie, Caterina Cavallini durata oltre 65 anni. Una vera e propria “ode” all’amore. Un amore che va oltre la morte e rimane eterno. Il regista si è avvalso di un cast d’eccezione. Tra loro Filippo Velardi è il giovane Bruno Cavallini, fratello di Caterina, un ruolo di primo piano nel film. All’indomani della prima proiezione il Sir lo ha intervistato.
È uscito l’8 febbraio su Sky Cinema “Lei mi parla ancora”, il nuovo film di Pupi Avati ispirato dal libro di Giuseppe Sgarbi. Il libro racconta il rapporto matrimoniale del padre del critico d’arte Vittorio Sgarbi con la moglie, Caterina Cavallini durata oltre 65 anni. Una vera e propria “ode” all’amore. Un amore che va oltre la morte e rimane eterno. Il regista si è avvalso di un cast d’eccezione. Tra loro Filippo Velardi è il giovane Bruno Cavallini, fratello di Caterina, un ruolo di primo piano nel film. All’indomani della prima proiezione il Sir lo ha intervistato.
Velardi, un film molto importante che arriva dopo anni di gavetta e tanti ruoli come attore…
“Ogni cosa ha una sua attesa e i risultati arrivano dopo anni di perseveranza e impegno. Questo ci aiuta a prendere atto che realmente certe cose possono accadere. Per quanto mi riguarda posso parlare di una ‘nuova recitazione per me’, partita otto anni fa dopo una forte esperienza di fede, che oggi sta vivendo un momento importante nel lavorare con Pupi Avati, un galantuomo del cinema che mi ha accolto e trattato come un figlio, è stato inaspettato. Questo incontro per me è stato di forte rilievo che mi ha permesso di vivere dei momenti di grande profondità. Abbiamo vissuto un’atmosfera che ha fatto sì che tutti i sacrifici venissero ripagati. Ho sempre perseguito con determinazione i miei obiettivi, perché
io credo sempre di più alla luce che alle tenebre.
Credo di più a una cultura di vita che di morte e tutto ciò si respirava sul set.
In che senso?
“Il film parla della storia d’amore di oltre 65 anni di Giuseppe Sgarbi con Caterina Cavallini. Lei è morta qualche anno prima del marito, ma il sacramento del matrimonio, che troppo spesso oggi è dato per scontato, resta eterno. L’amore dei protagonisti non smette mai di esistere e va oltre la morte e per questo motivo è un fiore nel deserto. Vengono affrontati argomenti grandi, e io in quanto figlio di Dio miro a cose grandi e più alte. In tal senso, questo film per me è stato una sorta di accostamento e di accompagno per la mia fede, sia per la trama che per il messaggio che vuole dare. Ricordo per esempio un passaggio di un dialogo in cui si afferma che
‘senza Dio è un vuoto senza fine’.
Io credo fortemente a questa cosa, prima come persona e poi come attore. Difatti non si può essere attori senza essere prima persone. L’esperienza spirituale e di fede permea la personalità, dando verità a un testo teatrale o a una sceneggiatura. L’attore oggi ha una responsabilità comunicativa che proviene da una verità che è la vita”.
Qual è, se c’è, la sua verità?
“Per me il dolore, che fa parte della vita, è alla base di qualsiasi esperienza artistica. È una sorta di morte che porta a una resurrezione, che c’è sempre”.
Lei ha detto che crede “sempre di più alla luce che alle tenebre”. In un momento storico e complicato come questo, come è possibile declinare questa affermazione nella vita di tutti i giorni?
“Penso che sia necessario declinarla nel nostro tempo. Lo vediamo tutti i giorni: siamo distanti socialmente e fisicamente, giriamo con la mascherina.
La cosa che ci rimane, proprio in virtù del fatto di mirare a cose più alte, è alzare gli occhi al cielo e rendersi conto che si può respirare. Alzare gli occhi verso la luce non è ancora contagioso o vietato. Si può fare e dovremmo farlo tutti. Personalmente sento spesso questo senso di oppressione in questa nuova vita che stiamo vivendo che sta perdurando nel tempo ma, a volte mi basta fare come i bambini e guardare i cielo tra i rami per tornare a respirare.
È importante mirare a quello, da questa situazione ne usciremo e ci renderemo conto che avremmo dovuto apprezzare di più il cielo che avevamo prima”.
Il cielo come metafora di una nuova vita quindi…
“Sì, sono convinto che si debba sempre guardare a qualcosa di più alto e, soprattutto, sognare in grande. Tutti siamo in tempo per iniziare a sognare in grande, senza dimenticare di realizzare il piccolo. Si deve partire dalla concretezza di ciò che si può fare. Mi auguro che da questo periodo nasca un cinema e un modo di vivere nuovo, che miri ai veri valori e a tutte le cose che ci stanno venendo a mancare, come la famiglia, le amicizie, i rapporti con gli altri. Dovremmo smettere tutti di giudicarci e iniziare a sopportarci l’uno con l’altro, perché nessuno è immune dall’errore. Da qui si può partire verso una nuova umanità. Un’umanità vera che è quella di cui siamo fatti”.