Raccontare la vita di coppia
Ve lo ricordate sicuramente Casomai, il film di D’Alatri del 2002, con la coppia Volo e Rocca che in tante parrocchie divenne una puntata ufficiale del corso fidanzati.

Sebbene siano passati più di vent’anni – il regista è mancato due anni fa – ciò nonostante numerose parrocchie in diverse parti d’Italia ancora oggi si affidano a questa narrazione audiovisiva per pennellare la vita di coppia, la costruzione di un progetto insieme e le sfide di ogni matrimonio. Eppure, mi chiedo, oggi quanto sia lontano quel film dalla realtà dei giovani e dalle categorie con cui si pensano; quanto il tradimento che tanto infiammava la seconda parte del film, minando il futuro della coppia, ormai sembri essere un tema “quasi” superato per lasciare spazio a molto altro. Ci pensavo vedendo il freschissimo We live in time-Tutto il tempo che abbiamo dell’irlandese John Crowley, pronto per immolarsi in sala alla causa di San Valentino e magari anche a quello che rimane dei corsi fidanzati. Si tratta di un’opera più colta di Casomai, in particolare per come utilizza il linguaggio cinematografico nel narrare il Chronos e il Kairos, per farla breve la quantità e la qualità, di una coppia: Tobias e Almut, interpretati da Andrew Garfield (The Amazing Spider-Man e tra i tanti altri lo straordinario The Silence di Scorsese) e Florence Pugh (l’Amy March di Piccole Donne di Greta Gerwig e molto altro). Il legame tra i due protagonisti ci arriva smontato in tanti pezzi, vere e proprie epoche fratturate della loro storia e a noi spettatori compete ricucirle nell’ordine giusto ma, e qui sta il bello del film, affrontando tutte le implicazioni di senso che vengono da questo disordine. Attraverso il montaggio, un aspetto squisitamente filmico, viene infatti negato il senso di continuità di questa coppia che impariamo a conoscere a brandelli. Il metodo narrativo qui diventa formativo, nel senso di riuscire a porre molte domande allo spettatore, perché non avendo l’ansia del come andrà a finire (staranno insieme sì o no; guarirà sì o no; avranno figli sì o no; realizzeranno i loro traguardi professionali sì o no…), si mette molto più l’accento sulla qualità di quello che accade. Dentro a questo raffinato meccanismo si stagliano alcuni paradigmi giovanili dell’epoca odierna che difficilmente possiamo pensare di eludere anche in ambito pastorale: Tobias non è quello che in gergo viene definito il “maschio alfa”, la sua miglior caratteristica è infatti proprio il lasciarsi toccare nell’ascolto attivo da quello che la sua compagna gli consegna, anche le delusioni più eclatanti come sentirsi dire da Almut che non sa se si pensa in futuro nel ruolo di madre – e qui viene il secondo aspetto – ovvero quello che raccontano anche molte donne giovani oggi in tante ricerche e che possiamo sintetizzare nelle espressioni “può darsi” o “non lo escludo a priori”. Come Tobias sa negoziare tra l’amore che davvero è in quel presente e le sue aspettative di uomo, così Almut fa lo stesso con i suoi desideri di realizzazione personale e i ruoli percepiti come socialmente imposti. Sono nuove categorie narrative del cinema europeo di qualità, fondate sulla parità di genere che mettono in scena sempiterni melodrammi eppure rivisitati e che sanno restituire dinamiche anche nell’ambito della malattia che ridefiniscono le priorità. C’è una scena in ambito “raccolta differenziata”, che non sveleremo, che se da una parte potrebbe scandalizzare tanti operatori pastorali in ambito familiare, dall’altra analizzata dal verso giusto potrebbe, invece, aprire a un confronto finalmente ancorato ai giorni nostri. Per chi vorrà provarci!
Arianna Prevedello
Referente Cultura, Pastorale e Formazione dell’Acec