“Se non c’è la pace tutto il mondo finisce per essere un Lager”: la storia di don Daniele Longhi, sacerdote deportato a Bolzano

Arrestato a Bolzano il 19 dicembre 1944, perché sospettato di essere un membro del Comitato di liberazione nazionale clandestino, interrogato dalla Gestapo, venne poi condotto nel Lager di via Resia, nel blocco celle. Gli furono assegnati il triangolo rosso, che distingueva i deportati politici, e il numero di matricola 7.459. Così come altri internati nel campo di concentramento di Bolzano, anche don Longhi era destinato alla deportazione in un Lager d’Oltralpe. Rinchiuso con decine di altri detenuti sui carri bestiame il 25 febbraio 1945 in via Pacinotti, nella zona industriale di Bolzano, tornò invece nel Lager di via Resia perché i bombardamenti alleati avevano distrutto i binari della linea del Brennero

“Se non c’è la pace tutto il mondo finisce per essere un Lager”: la storia di don Daniele Longhi, sacerdote deportato a Bolzano

“Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa (Giovanni Paolo II) recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela ‘Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta’. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il nuovo millennio”.

È l’11 febbraio 1996. Siamo a Trento, nella chiesa della Ss. Annunziata. A parlare è don Daniele Longhi, classe 1914. Un sacerdote che sa bene cos’è un Lager. Sulla sua carne e nel suo spirito ha portato per anni i segni degli orrori che visse e vide nel Lager di Bolzano. Quella che dà a Carla Giacomozzi dell’Archivio storico di Bolzano per il progetto “Storia e Memoria: il Lager di Bolzano”, è una delle rarissime e probabilmente l’ultima testimonianza di quegli orrori. Una sorta di racconto-testamento, a pochi mesi dalla morte, per mantenere viva la memoria e per non permettere alle generazioni successive di dimenticare.

Arrestato a Bolzano il 19 dicembre 1944, perché sospettato di essere un membro del Comitato di liberazione nazionale clandestino, interrogato dalla Gestapo, venne poi condotto nel Lager di via Resia, nel blocco celle. Gli furono assegnati il triangolo rosso, che distingueva i deportati politici, e il numero di matricola 7.459. Così come altri internati nel campo di concentramento di Bolzano, anche don Longhi era destinato alla deportazione in un Lager d’Oltralpe. Rinchiuso con decine di altri detenuti sui carri bestiame il 25 febbraio 1945 in via Pacinotti, nella zona industriale di Bolzano, tornò invece nel Lager di via Resia perché i bombardamenti alleati avevano distrutto i binari della linea del Brennero.

Quello del dicembre 1944 era il terzo arresto per don Longhi. “È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato”. Poche parole, per descrivere una sofferenza che fa male anche a decenni di distanza. “Tre arresti – prosegue nel racconto -. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro”. “Forse era meglio scappare – aggiunge – ma don Guido (Pedrotti) è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: ‘Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme’. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale”. Era rimasto per offrire, come cappellano Onarmo, assistenza religiosa e morale agli operai della zona industriale della città. Un’assistenza che arrivava anche alle carceri e al campo di concentramento di via Resia.

Di arresti, don Longhi, ne aveva già subiti due, ma quello era stato diverso dagli altri. Non dice il perché, dice solo “per me quel 19 lì era la conclusione ecco”.

“Quella mattina ci hanno tenuto nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento – racconta don Longhi -. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati”. Ed è a questo punto che don Longhi, che vive il momento più difficile. “Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… – prosegue – e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma. Il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio. È stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo. Ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste”.

Il 25 febbraio 1945 è un’altra giornata che don Longhi non ha mai dimenticato. “Ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame”.

“Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle – racconta – e lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: ‘Ma qui ci deve essere un prete con noi’ e allora io rispondo: ‘Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari’. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce n’era, e allora abbiamo detto: ‘Ma adesso lei rimane senza’, e lui: ‘Ma tanto non ne abbiamo bisogno’. ‘Perché no?’. Perché dice: ‘Noi non saremo deportati in Germania’, ‘Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?’. ‘Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania’. La sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e la notte è arrivata presto come sempre, ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, perché abbiamo attraversato a piedi la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo. Quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile”.

Dopo la liberazione don Daniele Longhi si è prodigato per mantenere vita la memoria delle tante persone che persero la vita nel Lager di Bolzano. 11.116 stando ai documenti arrivati fino a noi oggi, ma probabilmente furono molti di più. Nomi, volti, non numeri, ai quali don Longhi ha dedicato un monumento commemorativo – il primo a Bolzano – realizzato con i soldi raccolti nel 1955 tra gli operai e i dirigenti della zona industriale. Ed è attraverso la storia di don Daniele Longhi che quest’anno il capoluogo altoatesino ha deciso di ricordare quei volti e quelle persone.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir