Anziani. “Vi spiego perché non possiamo fare a meno delle Rsa”

L’Italia è uno dei paesi europei con il tasso più basso di istituzionalizzazione della popolazione anziana. Capurso (Anaste): “I nostri ospiti non potrebbero vivere altrove, ma le rette sono quelle di 10 anni fa e, se continua così, le realtà del territorio spariranno a vantaggio dei grandi gruppi”

Anziani. “Vi spiego perché non possiamo fare a meno delle Rsa”

Quello alla salute è un diritto considerato inalienabile dalla Costituzione, eppure per oltre 3 milioni di cittadini italiani anziani con limitazioni gravi rischia di rimanere un miraggio. Un problema destinato ad amplificarsi nei prossimi anni in termini assoluti e relativi, visto l’aumento dell’aspettativa di vita e la diminuzione della natalità nel nostro Paese. Ai bisogni di questa fetta di popolazione sempre più numerosa e al tempo stesso più fragile tenta di dare una risposta il decreto legislativo attuativo della Legge delega 33/23 in materia di politiche a favore delle persone anziane, di cui ancora non si conosce il testo nel dettaglio. Ma fin da subito sono emerse le prime proposte e richieste di maggiori risorse da parte del mondo sindacale e del terzo settore. Preoccupata per la scarsezza dei fondi, per il mancato avanzamento sul versante dell’integrazione socio-sanitaria e per il rischio che la promozione della telemedicina si traduca in molte parole e pochi fatti è anche l’associazione nazionale delle strutture per la terza età Anaste, che unisce le Rsa private sparse su tutto il territorio nazionale. Una realtà, quella delle Residenze sanitarie assistenziali, divenute note all’opinione pubblica durante il Covid, e che molti, anche tra gli esponenti dell’attuale maggioranza, vorrebbero superare, ma che per Anaste e il suo presidente Sebastiano Capurso restano un presidio per la salute pubblica, spesso descritto superficialmente dai media influenzati da singoli casi di cronaca e mala gestione.

Presidente Capurso cos’è esattamente una Rsa e chi sono i suoi ospiti?  

Le attuali strutture residenziali non somigliano ai vecchi ospizi di un tempo e sono completamente diverse da quelle realtà descritte durante il Covid. Le moderne Rsa – che non vanno confuse con le case di risposo, le comunità alloggio, il cohousing e le altre mille denominazioni che la fantasia degli amministratori ha fatto proliferare – sono strutture a prevalente indirizzo sanitario dove vivono anziani totalmente non autosufficienti e non in grado di svolgere autonomamente le normali attività della vita quotidiana. Possono essere a gestione pubblica o privata e, nel secondo caso, possono essere accreditate o non accreditate. Le Rsa accreditate sono gestite da enti privati o non profit, sono finanziate al 50% dalle Asl e rispondono a requisiti tecnici, strutturali, organizzativi e di personale identici a quelli previsti dal servizio pubblico, mentre le strutture non accreditate si muovono in tutto e per tutto sul mercato privato con una retta integralmente a carico degli utenti. Le Rsa accreditate sono fornite di palestra, giardini, ampi spazi di socializzazione, ma non chiedetemi se hanno il campo da bocce, perché i nostri utenti non sarebbero in grado di utilizzarli.

Chi sono e quanti sono gli ospiti delle Rsa?

Gli anziani di cui ci occupiamo sono quelli con gravi limitazioni funzionali non autosufficienti. Sono anziani con malattie croniche invalidanti, in oltre il 60% dei casi affetti da demenza, che necessitano di assistenza e cure continuative da parte di personale medico e tecnico specializzato. Secondo i dati Istat 2023, in Italia gli anziani con gravi limitazioni funzionali sono 3.950.000, di cui circa 300mila vivono nelle Rsa e nelle strutture di ricovero. Si tratta, quindi, di una fascia molto piccola, pari a circa la metà di quelli ricoverati nei Paesi Ocse, e ancora meno di quelli presenti in paesi come la Francia, la Germania e la Danimarca. In questa luce appare davvero bizzarra l’idea presente nel Pnrr di finanziare la de-istitunzionalizzazione degli anziani, perché nelle Rsa italiane vivono solo gli anziani con le condizioni di salute più gravi.

Perché in Italia i posti nelle Rsa sono minori rispetto agli altri paesi Ocse? Manca l’offerta o non c’è richiesta?

Innanzitutto va detto, che il numero dei posti in Rsa è del tutto sottodimensionato rispetto alle esigenze della popolazione, con un forte squilibrio tra le varie regioni. Ci sono cioè regioni come la Lombardia che per numero di posti letto in Rsa rispetto agli abitanti si colloca al primo posto in Europa, regioni del Nord generalmente in media con gli altri paesi Ocse e tutte le regioni del Sud, compreso il Lazio, drammaticamente in coda. Gestire gli anziani non autosufficienti a casa, caricandoli sulle famiglie, ha però delle conseguenze: pronto soccorso intasati e reparti di medicina degli ospedali stracolmi. Insomma, il numero dei posti letto delle strutture che forniscono cure di lungo termine dipende sì dalla domanda, ma anche alla necessità di far funzionare questo ingranaggio: infatti, come attesta una ricerca condotta nel 2023 dalla Fadoi, la Federazione delle associazioni dirigenti ospedalieri internisti, solo nei reparti di Medicina degli ospedali si fanno ogni anno 2 milioni e mezzo di giornate di degenza impropria perché non si riescono a dimettere gli anziani. Le strutture residenziali che offrono cure di lungo termine servono a svincolare gli ospedali da questa incombenza. Inoltre, anche per l’ingresso in Rsa come per gli esami diagnostici, esistono regioni in cui le liste di attesa non scorrono mai. Insomma, siamo di fronte a una domanda occulta, spesso soddisfatta, soprattutto al Sud, dalle migliaia di posti presenti all’interno delle realtà abusive o dalle case di riposo, occupate impropriamente da anziani gravemente non autosufficienti.

Ma perché il problema degli anziani gravemente non autosufficienti non si può risolvere con l’assistenza domiciliare?

Perché l’assistenza domiciliare, per una questione organizzativa e tecnica, si rivolge a una fascia di utenti completamente diversa. Se non chiariamo questo concetto, rischiamo di mettere falsamente in antitesi assistenza domiciliare e assistenza residenziale. Infatti, l’assistenza domiciliare, per sua conformazione, può funzionare per attività sociali e per prestazioni sanitarie limitate. Non può funzionare, invece, se l’anziano presenta bisogni sanitari più intensi e necessita di un’assistenza professionale h24. Quando si arriva alla grave compromissione, infatti, la Rsa è la migliore soluzione possibile.

Qual è la sua opinione sul decreto legislativo attuativo della Legge delega 33/23, almeno per quello che ne conosciamo a oggi?

A parte il fatto che il problema dello squilibrio del numero dei posti letto in Rsa tra le varie regioni non è mai menzionato, posso evidenziare perlomeno tre criticità. Innanzitutto, le risorse sono risibili, perché si prevedono solo 500 milioni per il 2025 e per il 2026 e zero euro per il 2024, mentre il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza aveva stimato un fabbisogno di 1 miliardo e 300mila euro solo per partire e 3 miliardi di euro rispettivamente per il 2025 e per il 2026, quindi siamo a un decimo degli stanziamenti necessari, cioè una goccia nel mare. In secondo luogo, la riforma non prevede alcun avanzamento sul versante dell’integrazione socio-sanitaria. Neppure questa volta verrà applicata la legge 328 del 2000, perché se si lasciano i centri di controllo e di organizzazione nelle Asl, nei Comuni e all’Inps, l’integrazione non si farà mai. Terzo punto negativo, è la digitalizzazione della telemedicina, dove vedo molto fumo e nessuna iniziativa concreta a favore dell’informatizzazione e la trasparenza. Sul versante opposto, il maggior elemento positivo del decreto sta nella valutazione unica nazionale, ovvero una valutazione standardizzata per obbligo di legge del livello di non autosufficienza di ogni singola persona. Se si riuscisse a farlo, si tratterebbe di una riforma epocale. In controluce, infine, si intravede il rischio di spostare alcune prestazioni dal sanitario al sociale, privando gli anziani del diritto di ricevere le cure a carico del Servizio sanitario nazionale.

Cosa sono le Rsa aperte di cui ogni tanto si sente parlare?

Sul tema della Rsa aperta facemmo un convegno nel lontano 2006. Si tratta, in poche parole, di una Rsa che fornisce servizi al territorio, mettendo a disposizione le proprie équipe di professionisti. L’assistenza domiciliare integrata potrebbe partire proprio dalle Rsa, strutture che al proprio interno hanno molte professionalità disponibili e servizi infermieristici aperti h24. Aprendo le porte la Rsa può fare telemedicina, assistenza ambulatoriale, esami diagnostici, vaccinazioni, eccetera. Insomma, può diventare un polo aperto sul territorio per offrire presidi sanitari, anche laddove non sono presenti. Per fortuna queste realtà, che esistono già in alcune regioni tra cui Lombardia e Piemonte, rientrano nella legge attraverso la presenza di un centro multiservizi.

Cosa non si racconta mai della quarta età?

Della quarta età non viene raccontata mai la solitudine, che non nasce nelle Rsa ma molto prima, dal sistema della disgregazione della famiglia, dal fatto che molti anziani sono soli e poveri, non hanno relazioni né economiche né sociali né affettive. Molti degli ospiti delle Rsa sono completamente soli, non li viene mai a trovare nessuno, spesso non hanno un coniuge, non hanno figli e se li hanno sono lontanissimi. Oggi, purtroppo, le famiglie non ci sono più e, quando ci sono, sono impegnate per la sopravvivenza e non hanno risorse da dedicare alla cura degli anziani. Questo avviene meno nel Sud, dove le donne sono costrette a rimanere a casa ad accudire gli anziani perché non ci sono strutture. Quindi il problema della solitudine non nasce nelle Rsa, oggi in sofferenza anche per un mancato adeguamento delle rette che sono rimaste ferme a 10 anni fa, favorendo la concentrazione delle strutture nelle mani dei grandi gruppi finanziari a discapito delle realtà territoriali che si occupavano di assistenza degli anziani.    

Antonella Patete

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)