Coabitazione solidale: vivere sotto lo stesso tetto per superare le difficoltà

È uno strumento del Welfare che si adatta ai gruppi più disparati: persone per lo più fragili che possono trarre giovamento dal condividere le fatiche del quotidiano. Se ne parla in un webinar il 26 febbraio. Costa: “Ci vuole un metodo, non si può improvvisare”

Coabitazione solidale: vivere sotto lo stesso tetto per superare le difficoltà

Vivere insieme per vivere meglio. Ovvero vivere insieme, unendo forze e risorse, per trovare risposte comuni ai bisogni di ognuno. Alla vasta gamma delle esperienze di vita in comune è dedicato il webinar promosso dalla Rete Nazionale del Coabitare Solidale in programma per il prossimo 26 febbraio (ore 17.30). Si tratta di un incontro su questa specifica forma di abitare a partire dal volume “Coabitazioni solidali. Politiche, programmi e progetti” (Carocci 2023). “Semplificando al massimo, possiamo dire che la coabitazione solidale è un progetto socio-abitativo in cui le persone vivono insieme sotto lo stesso tetto e dietro la stessa porta, in una logica di solidarietà tra gli abitanti della casa”, spiega Giuliana Costa, professoressa associata di Sociologia generale presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano e coautrice, con Francesco Andrea Minora, del volume. Non tutte le coabitazioni, infatti, possono definirsi solidali: basti pensare a quelle che si formano sul mercato, fatte da studenti e lavoratori, che decidono di abitare insieme anche, e soprattutto, per dividere le spese di casa e dell’affitto. “Affinché si possa parlare di coabitazione solidale è necessario decidere di condividere le fatiche del quotidiano, mettendo insieme risorse e risposte, proprio a partire dalla vita comune”, precisa la docente, che da molti anni ha concentrato la propria attenzione sulle politiche abitative a valenze sociale all’interno delle politiche di welfare.

“Si tratta di progetti rivolti alle persone e ai gruppi più disparati, utilizzati ormai in molte aree del welfare – prosegue Costa –. Spesso le politiche di welfare, che prevedono la componente abitativa, ricorrono alla coabitazione sia per razionalizzare i costi degli interventi sia per usare la vita insieme come strumento per dare risposte a bisogni complessi”. Non è facile comprendere con esattezza quanto le coabitazioni solidali siano diffuse in Italia, perché all’interno di questo mondo le esperienze più strutturate, come le comunità alloggio e i gruppi appartamento, convivono con un pullulare di esperienze più piccole e sperimentali, ancora non inserite nella rete dei servizi. “Insomma, è una forma dell’abitare ancora abbastanza eccentrica, la cui rilevazione richiede di fare una sorta di ‘bricolage geografico’ – commenta la docente –. Condividere gli spazi domestici non è né facile né semplice. E perfino le coabitazioni promosse dai servizi hanno bisogno della presenza di due elementi indispensabili: le persone devono essere convinte di andare ad abitare con altri e devono possedere delle caratteristiche tali da dare un senso e, nello stesso tempo, da rendere più facile la vita in comune”.

Se in Italia le esperienze di coabitazione solidale sono ancora poche, sono però molto variegate: ci sono gruppi di persone con disabilità psichica o fisica, soggetti in uscita da percorsi di homelessness, padri separati, giovani in uscita dai percorsi di tutela e, più in generale, persone che, non avendo alle spalle una solida rete informale, non riescono a far fronte a eventi particolarmente difficili della vita. Le coabitazioni possono essere omogenee o disomogenee: può trattarsi di un gruppo di donne sole con figli come dell’abbinamento tra giovani e anziani oppure tra studenti e rifugiati. Nella maggior parte dei casi si tratta di soluzione abitative temporanee, ma a volte anche stabili: basti pensare alle persone con disabilità, che hanno necessità di un progetto di vita duraturo. “Ci sono poi forme di coabitazione solidale che, in presenza di persone con particolare vulnerabilità, prevedono interventi di operatori educativi, sociali e socio-sanitari – sottolinea Costa –. Ma l’intervento avviene sempre in un alloggio di civile abitazione e non in un grande contesto residenziale: le dimensioni sono importanti e l’essere in una casa pure”.

Nella maggior parte dei casi le coabitazioni sono gestite da enti del terzo settore, spesso grazie al sostegno economico delle fondazioni bancarie, mentre quando sono inserite nella rete dei servizi territoriali fanno leva sul meccanismo di finanziamento delle rette. A sostegno di questo movimento c’è anche la Rete Nazionale Coabitare Solidale, che riunisce al proprio interno associazioni, cooperative, consorzi, singoli professionisti e accademici che lavorano in territori diversi in Italia attorno al tema dell’abitare: “È una realtà molto recente, ma nata da un lungo lavoro di confronto tra i soggetti che ne fanno parte – conclude l’esperta –. La rete si propone di valorizzare la coabitazione solidale, facendo ricerca e aiutando altre realtà a realizzare e implementare i progetti. Ma attenzione, non si può improvvisare: per far sì che le persone possano vivere insieme occorre un metodo e una specifica strumentazione di lavoro”.

Antonella Patete

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)