Come i social ci stanno cambiando. Tra semplificazione e disintermediazione

Internet e i social network: non stanno cambiando solo il nostro modo di vivere, ma anche il nostro modo di ragionare e di vedere il mondo. Tra i pericoli della disintermediazione e della semplificazione della realtà, le potenzialità di una Rete che l’uomo può e deve utilizzare al meglio quale “dono di Dio”, come ricordato da Papa Francesco nei suoi messaggi.

Come i social ci stanno cambiando. Tra semplificazione e disintermediazione

L’agricoltura, la ruota, la scrittura, la rivelazione cristiana, la scoperta dell’America… Innovazioni tecnologiche o avvenimenti storici che in poche generazioni, se non in pochi anni, hanno trasformato radicalmente l’umanità. Lo hanno fatto non tanto – o non solo – trasformando il suo modo di vivere, quanto la modalità con cui l’essere umano vede il mondo, ragiona e concepisce se stesso e il suo posto nel cosmo. Internet, e in particolare l’universo dei social network, accessibili a chiunque grazie a telefonini sempre più semplici e sempre più economici, certamente è tra queste pietre miliari della storia dell’uomo e delle sue trasformazioni.

Quanto ci sta cambiando Google? Cosa stanno modificando, pian piano, dentro di noi, Facebook, Instagram e Twitter? Pensiamo al nostro vocabolario. Il nostro pensiero e il nostro modo di vedere il mondo si basano sui linguaggi che apprendiamo. Le parole non sono solo mezzi per trasmettere significati, ma rappresentano i significati stessi con i quali assembliamo la nostra visione della realtà.

È indubbio che quando mezzi di comunicazione nell’arco di pochissimi anni diventano prevalenti per la vita delle persone, il loro impatto diventa notevole anche nel modo di pensare e di rappresentarsi la realtà. Marshall McLuhan, sociologo della comunicazione, aveva già detto tutto studiando la televisione negli anni ’60: “Il medium è il messaggio”, ovvero è il mezzo tecnologico stesso, con le sue peculiarità, a fornire i significati. Qualche anno fa, l’antropologo Marino Niola confidava a Silvana Mazzocchi di Repubblica come «la comunicazione digitale formatta il linguaggio e, di conseguenza, formatta il pensiero. Questo è vero per qualsiasi forma di comunicazione.[…] Quella che si profila è la possibilità di una progressiva digitalizzazione della mente, con la contrazione degli spazi che diventa contrazione del senso. E il 2.0 che da dispositivo comunicante si trasforma in modo di pensare, di sentire e di essere».

Si possono individuare due “regole” sintattiche di fondo che contraddistinguono il linguaggio del web. La prima è la semplificazione assoluta. Si parte da semplificare il dizionario e la sintassi, si finisce per semplificare la realtà. Se un concetto non può essere riassunto in un tweet di 140 (oggi 280) caratteri, si perde. Dalla semplicità alla semplificazione il passo è breve, e questo porta a toni forti e sempre più estremi nei propri giudizi. La seconda “regola” del linguaggio del web è la disintermediazione. Vent’anni fa per sapere il risultato di Fiorentina-Napoli bisognava aspettare Galeazzi a Novantesimo Minuto. Oggi basta aprire lo smartphone e affidarsi, in tempo reale, a una delle migliaia di app sportive. Vent’anni fa ascoltavamo le parole di D’Alema al Tg1. Oggi Di Maio evita i giornalisti e si affida alle dirette su Facebook. I corpi intermedi – non solo, ma anche per colpa della Rete – non godono di buona salute.

C’è chi, prima di altri, è riuscito a canalizzare i meccanismi della Rete – anche oscuri – per i suoi obiettivi. Siamo abituati a considerare ancora la Rete lo spazio dove “uno vale uno”, i social network una piazza virtuale dove lo sconosciuto senatore di colore dell’Illinois può prendere la parola e diventare presidente parlando di speranza. Non è più così.

Una concezione ancora artigianale e pioneristica appartiene ormai al passato. Adesso circolano budget pubblicitari miliardari, web-agency che interpretano in tempo reale il polso dell’opinione pubblica e attraverso lo studio dei big data, l'utilizzo dei dati personali e le pubblicità mirate sono in grado di modificarla con un incessante e paziente bombardamento di fake news. Le vicende di Cambridge Analytica e le influenze russe nelle campagne elettorali per il referendum britannico e l’elezione del presidente degli Stati Uniti del 2016 ormai sono storia.

La differenza con la vecchia propaganda, specie quella dei regimi totalitari, era che se mentre prima la comunicazione veniva veicolata dall’alto attraverso il principio di autorità (la stampa di regime, le autorità locali, la scuola e l’impresa), adesso si diffonde per contagio per via orizzontale, attraverso i meccanismi delle condivisioni virali. Il risultato è che la post-verità non viene imposta, ma ci si ritrova a viverla dentro il proprio ambiente, quasi naturalmente. Papa Francesco ci ha avvertito dei pericoli che stiamo vivendo, ma ci ha anche ricordato come Internet sia pure un “dono di Dio”, da utilizzare al meglio.

Dunque? Che fare? In primo luogo occorrerebbe un ingente sforzo di alfabetizzazione digitale, non solo limitato all’utilizzo tecnico degli strumenti, quanto alla comprensione dei loro linguaggi, delle storture e dei pericoli. Solo così internet sarà a servizio dell’uomo (e non il contrario). In secondo luogo i governi – e l’Unione Europea in questo senso sta dettando gli standard – devono combattere per il diritto alla privacy e a una maggiore trasparenza sulla Rete, in particolar modo sul fronte della comunicazione politica.

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