I giovani chiedono ascolto: intervista alla Garante nazionale

Presentati i dati della consultazione “Il futuro che vorrei”, rinviata per lutto nazionale la Relazione al Parlamento. Il punto su scuola, famiglia, servizi, “comunità educante”, violenza e giustizia minorile, nell'intervista a Carla Garlatti

I giovani chiedono ascolto: intervista alla Garante nazionale

Meno del 4% dei ragazzi e delle ragazze crede che, in Italia, la categoria più tutelata sia quella dei giovani: è uno dei dati, forse tra i più significativi, emersi dalla consultazione “Il futuro che vorrei”, con la quale l'Autorità Garante dell'infanzia e l'adolescenza ha interpellato e ascoltato 6.500 giovani tra i 12 e i 18 anni. Una consultazione che ha messo in evidenza paure, preoccupazioni, ma anche una sostanziale fiducia e un generale ottimismo verso il futuro da parte dei giovani, nonostante il difficile periodo post-pandemico e il dramma della guerra. Giovani che, però, non si sentono tutelati, coinvolti, protetti. Per approfondire questo dato, ma soprattutto per capire cosa possano fare, per riuscire a modificare questo sentire, le principali agenzie educative, Redattore Sociale ha intervistato Carla Garlatti.

Preoccupati, eppure fiduciosi. Ma poco soddisfatti dell'ascolto e delle tutele a loro destinati. Cosa si sta facendo e cosa ancora si può fare per sentire i ragazzi e le ragazze più partecipi e più coinvolti?
E' da tempo che insisto sull'importanza di questa partecipazione, chiedendo che nell'agenda politica i minori siano veramente messi al centro. Lo scorso anno abbiamo dedicato la Giornata internazionale proprio al tema della partecipazione: non possiamo ricordarci che i ragazzi esistono solo in procinto delle elezioni, riducendo il dibattito al tema del voto per i sedicenni. Qualcosa in Italia è stato fatto: il quinto Piano per l'infanzia è stato partecipato, così come le Strategie europee. Tra cui l'ultima del Consiglio d'Europa sui diritti dei minori, realizzata con l'ascolto di 200 ragazzi e ragazze di diversi paesi europei. Il coinvolgimento deve essere concreto, al di là delle affermazioni e delle dichiarazioni d'intenti.

Immagino si debba partire dalle cosiddette agenzie educative. A scuola, per esempio, i ragazzi sono ascoltati, o prevalentemente ascoltano?
Premesso che gli insegnanti fanno un lavoro prezioso, dobbiamo prendere atto che la scuola italiana oggi non è attrattiva. Ce lo hanno detto i dati della consultazione “La scuola che vorrei”, ce lo ha confermato questa consultazione, visto che la scuola è in fondo alla graduatoria dei luoghi in cui ragazzi si sentono felici. Ammetto che questo mi ha colpita molto: i ragazzi e le ragazze non si sentono a loro agio in questa scuola, probabilmente per via di un modello d'insegnamento superato: gli studenti chiedono maggiore dialogo e un'apertura della scuola alla comunità, con aule che non siano perimetrate dai muri della scuola, ma possano aprirsi e riformarsi in diversi contesti. E non è vero che ai ragazzi basta essere promossi: gli studenti sono critici, la maggior parte non è contraria ai voti e alle bocciature, ma chiedono che sia preso in considerazione l'impegno, non solo il profitto. È significativo che questa risposta sulla scuola sia data subito dopo la pandemia: dopo essersi dovuti reinventare davanti a uno schermo, gli studenti sono rientrati a scuola e sono stati sottoposti a verifiche che li hanno sfiancati, quando si aspettavano un maggior riconoscimento dell'impegno. E' certo che la scuola deve diventare più attrattiva da vari punti di vista, perché è rimasta indietro. Pensiamo alla rete: la troviamo ormai dappertutto, perfino nel supermercato, ma ci sono ancora molte scuole che non hanno la rete, o che non la utilizzano, perché si ritiene che i ragazzi e le ragazze non debbano utilizzare internet. Non dobbiamo vietare, ma educare, rendendo la rete un'opportunità da sfruttare in maniera sana. Gli studenti chiedono che la scuola si apra a un mondo che è il loro mondo: non si può passare, entrando a scuola, da un tipo di vita a un altro diverso e distante.

Passiamo alla famiglia. In questi giorni è riesploso il dibattito su Bibbiano: la genitorialità deve essere difesa a tutti i costi?
Va detto innanzitutto che l'allontanamento del minore dalla sua famiglia deve restare l'ultima chance, mentre prima devono essere messi in campo tutti gli strumenti che consentano alla famiglia di superare le criticità che portano all'allontanamento del minore. Ci sono però casi in cui è necessario offrire una protezione sostitutiva. Certo, il diritto alla genitorialità deve essere tutelato, ma sempre tenendo conto dell'interesse del minore. Anche su questo fronte ci stiamo impegnando, sia con la Carta dei figli dei genitori detenuti, sia con uno studio al quale stiamo lavorando, che esamina come avvengano gli incontri in ambiente protetto, in quei casi in cui ci sono difficoltà nei rapporti tra genitori e figli. Abbiamo avuto l'opportunità di ascoltare i neo maggiorenni usciti dalle strutture di accoglienza ed è stato molto utile: ascoltare i ragazzi è importante, ci fanno capire cose che noi possiamo solo intuire.

Voglio ricordare, sempre a proposito di allontanamenti, che questi sono quasi sempre causati da violenze in ambito familiare: l'ultima indagine nazionale sul maltrattamento dei minori, che abbiamo condotto con Cismai e Terre des Hommes, ha evidenziato che nel 91,4% dei casi il maltrattamento, nelle varie formi in cui si declina, proviene da chi questi minori dovrebbe proteggerli. È un dato gravissimo. E qui ci scontriamo con un altro problema, che è proprio quello della mancanza di banche dati: in attesa che una banca dati sui maltrattamenti ci sia, come richiesto anche dal Comitato Onu, noi andiamo avanti con queste indagini, che pure risentono dei paletti imposti dalla privacy, per cui, ad esempio, non abbiamo potuto prendere in considerazione quei territori così piccoli da rendere riconoscibile il minore.

E i territori? In che misura rispondono alle esigenze di protagonismo dei giovani, per esempio con luoghi e servizi per il tempo libero, la socialità e lo sport?
Nella consultazione “Il futuro che vorrei”, i luoghi di aggregazione sono anche questi, come la scuola, in fondo alla classifica dei contesti in cui i giovani si sentono felici. Se ci sono, evidentemente non sono attrattivi. Si deve investire molto nei patti educativi di comunità. Così come bisogna investire nel mondo dello sport, che è un prezioso momento educativo e di inclusione. Per questo prestiamo un'attenzione costante allo sport: penso alla formazione per gli allenatori di qualche livello, come pure al vademecum per dirigenti e allenatori sportivi che, con il dipartimento dello Sport, abbiamo presentato qualche mese fa.

Per finire: violenza e giustizia giovanile. So che a Lei non piace l'espressione “baby gang”, che pure ricorre nelle cronache con crescente frequenza, come un fenomeno in preoccupante aumento. Cosa ne pensa?
Indubbiamente ci sono manifestazioni di disagio importanti, rispetto alle quali credo però che proposte come l'inasprimento della pena, come il carcere, non portino da nessuna parte. Credo che l'istituto della giustizia riparativa, laddove sia possibile praticarla, sia la risposta migliore per tutti. Per i minori che delinquono, che spesso non hanno la percezione del disvalore di ciò che fanno; ma anche per i minori vittime, che spesso si sentono soli, spaventati e faticano a reinserirsi nella società. La giustizia riparativa, mettendo a contatto vittima e autore di reato, crea consapevolezza nell'uno e nell'altro e risulta particolarmente efficace proprio con i minori. Stiamo svolgendo un'indagine qualitativa proprio sugli effetti della giustizia riparativa, con interviste ad autori, vittime e famiglie, per constare la ricaduta anche in termini di recidiva. Sono certa che il buon esito della riparazione, creando consapevolezza, può aiutare a impedire che il fatto sia reiterato. Soprattutto, può aiutare il minore a riconsiderare il proprio comportamento violento e a modificarlo per sempre. Di nuovo, è l'ascolto dei giovani che può offrire una soluzione, anche ai problemi più complessi come, appunto, la violenza che spesso ci viene raccontata dalle cronache.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)