Il dolore di una mamma azzoppata. Roberto Vecchioni ha ricordato in tv il figlio Arrigo, scomparso lo scorso anno a 36 anni

Il dolore raccontato da questa mamma che ha perso la figlia, richiama alla mente il dolore di Maria, impotente ai piedi della croce

Il dolore di una mamma azzoppata. Roberto Vecchioni ha ricordato in tv il figlio Arrigo, scomparso lo scorso anno a 36 anni

Tutt’attorno il sibilo piatto dei macchinari, il concitato andirivieni di medici e infermieri, le grida e il pianto sono solo rumore. Un rumore di fondo, lontano e altro, che erge un muro alto e impenetrabile attorno ad un silenzio ammutolito e assordante.

È proprio in quel silenzio senza fiato, mentre le dita sfiorano una mano che non restituisce più vita, che il cuore si squarcia. Per sempre. Una mano che, appena venuta al mondo, si era aggrappata istintivamente e tenacemente al tuo dito, ora è lì, immobile. 

È in quella carezza spezzata che si apre la voragine sull’abisso. È in quel preciso istante che viene strappato il velo dagli occhi e dalla mente e ci si trova nudi e inermi di fronte a quanto i tarli della malattia hanno rosicchiato da un’esistenza ancora affamata di giorni e sogni. 

E le braccia, che per tante notti insonni si sono fatte culla accogliente, ora stringono impotenti un corpo senza più vita. 

“La cosa più brutta che può esistere al mondo è perdere un figlio. La più brutta”. Nella puntata di “In altre parole” del 25 febbraio, ospite di Massimo Gramellini, Roberto Vecchioni ricorda il figlio Arrigo, scomparso lo scorso anno a 36 anni. “Il mondo non si meritava uno bello come lui – afferma il cantautore romano – se lo doveva meritare; non era lui che doveva meritarsi il mondo, era il mondo che doveva meritarsi lui. E un certo giorno se n’è andato. Se n’è andato perché il mondo non era roba sua. Ma per me è sempre qui. Lo strazio è per sua madre, lo strazio continua perché una madre è sempre dimezzata, perché anche di più della metà del suo cuore è per i figli, noi padri siamo un pochino meno”.

Le parole di Vecchioni hanno toccato il cuore di molte persone. Tra queste c’è Barbara, che all’intervento del cantautore ha dedicato un post sulla sua pagina Fb.

Barbara conosce bene lo strazio di cui parla l’autore di “Chiamami ancora amore” e “Sogna ragazzo sogna”. Sa cos’è una carezza spezzata e conosce il dolore che si prova quando il cuore si squarcia. Nell’estate di tre anni fa la furia della tempesta si è abbattuta sulla vita di sua figlia, rosicchiata da anni di malattia e fiaccata da tanti, troppi cicli di cure. 

“Se perdiamo qualcosa o qualcuno – scrive Barbara sulla sua pagina Fb – è perché lo abbiamo avuto nella nostra vita, altrimenti dovremmo andare a cercare una di quelle parole (del cazzo) o tedesche o giapponesi che vogliono dire, tradotte, qualcosa tipo “sentire la nostalgia di una sensazione indefinibile che non abbiamo mai provato ma di cui abbiamo letto una volta in un libro ritrovato per caso su una bancarella del mercatino di sticazzi”. Per dire. Invece no. La perdita, in italiano, è perdita e basta. La perdita è dolorosa, in ogni caso, e fa male, ogni giorno in maniera un po’ diversa. E nella mia miserrima esperienza, non è ancora arrivato il giorno in cui non ho provato quel dolore per una perdita”.

“La mancanza – scrive Barbara in un post del 15 ottobre 2023 – non è di sera quando non ho più nessuna guancia liscia a cui dare il bacino della buonanotte. Abbiamo trovato il nostro nuovo rituale, e di sera ce la faccio. Non è neanche quando sento i bisticci, le dinamiche, le vacanze madre-figlia che per noi, ad un dato momento si sono interrotte. Perché sono madri e figlie che, normalmente amo molto e quindi assisto con molta tenerezza come quella che ha il privilegio di tenere la parte della figlia e cerca, quando serve, di addolcire un po’ la giusta durezza della madre”.

“La mancanza non è insopportabile neanche quando, camminando, esco il cellulare dalla borsa o dalla tasca e scatto una foto, che avrei inviato via whatsapp a quel numero, da cui avrei ricevuto subito una risposta, che avrebbe capito l’ironia dell’oggetto, avrebbe condiviso il sarcasmo oppure, non raramente, avrebbe mandato un semplice smile che comunicava esattamente quello che doveva comunicare e che io interpretavo esattamente come andava interpretato”.

“La mancanza è tollerabile a tavola, quando raramente ormai, mi misuro nella preparazione di piatti elaborati, pronta alla critica (sia positiva che negativa), di chi ha il piglio di un commentatore professionista nella sua rubrica sul gambero rosso”. 

“La mancanza esplode, traditrice, quando sto bene. Quando non dico di essere felice, perché non so cosa significhi esattamente anche se ho 50 anni, oppure: non ci voglio pensare a cosa significa, perché serve a poco. Ma quando mi sento bene, quando mi sento in pace, serena, davanti ad un bel panorama, all’ora del tramonto incredibilmente senza zanzare, con la temperatura perfetta e una cosa butta su cui ridere, con due braccia che potrei scambiare per le mie tanto le conosco bene che mi tengono stretta”.

“Non è senso di colpa, perché so che comunque abbiamo il diritto e anche il dovere di avere questi momenti di felicità, malgrado tutto. Ma è proprio quell’attimo in cui il mio cuore sembra stare bene, per tutti e tanti altri aspetti che riesce a sentire, poi arriva tutto di un colpo la botta. La mancanza. L’assenza. Il pensiero che se uno dei miei pezzi di cuore è a godersi la casa libera senza genitori, l’altro lo so dov’è e cioè dove non dovrebbe essere”. 

Commentando l’intervento del professor Vecchioni, “uomo che cerca consolazione, membro del club del cazzo di cui sono parte anch’io”, Barbara scrive che vorrebbe abbracciarlo e parlare con lui, “confrontandomi ad esempio sull’annosa questione che mi tormenta da sempre che non ci sia una parola per noi genitori azzoppati, e mi fa tenerezza questo suo parlare di dolore della madre diverso da quello del padre, che probabilmente gli viene da un retaggio familiare, dalla sua storia personale o dal vivere accanto alla madre dei suoi figli che non si fa una ragione di tanto dolore e non riesce a gestire”.

“Il padre – sottolinea Barbara – è sempre quello che assiste al parto e c’è, è presente, e quai se non ci fosse nel caso in cui la madre lo vuole lì, ma è impotente, soffre il dolore di un’altra persona e non soffre di meno, ma non può fare niente ed è già molto se gestisce il suo, pur immaginandolo il dolore della madre e condividerlo e supportarlo e cercare di arginarlo in qualche modo; forse è vero che il padre soffre in maniera diversa, perché noi li abbiamo partoriti questi figli brevi, abbiamo condiviso uno spazio tra cuore, polmoni, milza e fegato, con loro. Il nostro sangue per un po’ di tempo era esattamente il loro, che faceva il giro completo”. 

“E comunque potremmo stare qui giornate a parlarne e non capiremo mai. E ora chiudo che c’è questo giorno zoppo, un po’ come noi genitori del club, da portare a casa”.

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Fonte: Sir