La rivoluzione di Kant e la sua fede. A trecento anni dalla sua nascita

Stanno cadendo quelle accuse a Kant di aver negato l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, anche se dobbiamo tener ben presente l’epoca in cui si sviluppa il suo pensiero

La rivoluzione di Kant e la sua fede. A trecento anni dalla sua nascita

Trecento anni fa, esattamente il 22 aprile, nella allora città prussiana di Königsberg, oggi Kaliningrad, in Russia, nasceva Immanuel Kant, destinato a rimanere nella storia della filosofia. E non solo, perché la sua critica della ragione pura, della ragion pratica e del giudizio hanno avuto un rilevante impatto sul pensiero a venire. Osannato da alcuni come rappresentante di punta dell’illuminismo e della laicità, in realtà presenta, al nostro sguardo di post-secondo millennio, una più profonda complessità.

La dimensione religiosa è ben presente nelle sue opere, soprattutto “L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio”, del 1762, e trent’anni più tardi “La religione nei limiti della semplice ragione”, che gli costò il perentorio “invito” da parte del re di Prussia Federico Guglielmo II di lasciar perdere gli studi religiosi e di non scrivere più opere così pericolose per la religione: Kant obbedì, anche se timidamente fece osservare che non vedeva nulla di particolarmente minaccioso per la fede dei buoni prussiani, anzi. Ma erano tempi in cui il potere monarchico, fondato su radici che vedevano nella fede una sicurezza fondamentale, non voleva sentir parlare di “ma” e “se”, ma solo di “sì”. E ubbidienza assoluta.

Il fatto è che Kant non poneva più la religione come fuori dal contesto umano, una dimensione di premi per i fedeli e di castighi per i non credenti o per i malvagi. No. Per lui le cose erano un po’ più complesse e legate alla dimensione umana, nel senso che la religione non solo non è estranea all’uomo, ma ha a che fare con la morale: i doveri dell’uomo e le prescrizioni religiose hanno il fine di portare l’uomo sulla strada della felicità. Morale umana e fede coincidono, e non attraverso la minaccia di punizioni e premi, ma come ricerca del bene sia nella storia che nella religione. Il cristianesimo, secondo il filosofo, si avvicina a questa idea, -che ha debiti con Rousseau-, di religione naturale: il peccato originale non è una favoletta propinata ai fedeli, ma la memoria di una contraddizione antica quanto l’umanità, con  la tendenza al male, la presenza di una violenza e di una malvagità accanto alla consapevolezza dei doveri e alla tensione verso il bene.  la Rivelazione racchiusa nella figura di Gesù fa emergere quella tendenza al bene messa in pericolo dall’esistenza del male insita nell’uomo stesso.

Un importante pensatore cristiano, Italo Mancini, scomparso nel 1993, ha considerato il pensiero religioso di Kant come un forte impulso al Concilio Vaticano II e una feconda influenza per il Personalismo, grazie soprattutto a quella forte compenetrazione tra rigore morale e fede.

Stanno cadendo insomma quelle accuse a Kant di aver negato l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, anche se dobbiamo tener ben presente l’epoca in cui si sviluppa il suo pensiero: la rivalutazione della ragione umana e la contestazione di dogmi e credenze che secondo gli illuministi rendevano l’uomo schiavo del potere. Soprattutto quello basato su un tacito accordo con le Chiese finalizzato al mantenimento di quel potere attraverso l’ignoranza e la superstizione, anche se all’interno del medesimo illuminismo ci furono fratture e drammatici antagonismi: basti pensare all’isolamento in cui si trovò Rousseau per la sua rivalutazione della natura e della spontaneità.

Le etichette non hanno mai giovato, soprattutto quelle che hanno tentato il gioco delle parti, ad esempio l’appartenenza di Kant alla “squadra” degli atei e avversari di qualsiasi fede, soprattutto quella cattolica. Un conto è la negazione, un conto porsi onestamente le inquiete domande che i tempi presentavano agli uomini. Anche a Kant.

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Fonte: Sir